Sullo schermo,
corpi in bianco e nero virati al
blu. E pioggia, tanta: la black rain di
giugno avvolge, investe, ingoia come una bocca fatta di miliardi di gocce un
triangolo umano sul quale aleggia l’ombra della morte. Lei-lui-lui: lei (Rinko/Kurosawa
Asuka) prima degli altri due è la pelle del film, superficie che si muove
lenta dilatandosi in una danza autoerotica pronta a rivelare un San
Sebastiano dietro i veli di Salomé.
Indecente è non
essere se stessi. Sconcio è rimbalzare ogni giorno sulle pareti di quel buco
nero che chiamiamo convenzione adeguandosi all’apparenza e
rinunciando all’estasi. Uso e costume sociale: anche cose così semplici si
rivelano apparati di potere che producono tumori. Molto più che regole
opprimenti di una società gerarchizzata, a ben vedere (nel sottile confine
tra ipocrisia e pudore, in Giappone sono in commercio le pillole per
deodorare le feci, da noi – faute de mieux - vedere uno spot
televisivo sui preservativi è un evento più unico che raro).
L’acqua che
scorre nei canali di scolo è quella di un noir che sembra una fiaba
(fiaba-noir: forse questa è la stessa pioggia che apriva Suspiria di
Argento). La città potrebbe essere Metropolis: grigio agglomerato in cui gli
esseri umani si trovano circondati da un sistema che impone regole e gusti,
visione di un inferno cementato sulle fobie private. Rinko, voce al telefono
che salva aspiranti suicidi e moglie insoddisfatta del represso Shigehiko (Yuji
Kotari), arriva gradualmente alla speranza di riuscire a salvare se stessa
subendo la persecuzione di Iguchi (lo stesso regista), un maniaco armato di
Nikon che immortala i suoi momenti più intimi sottoponendola ad un singolare
ricatto: "Fai ciò che vuoi e ti restituirò i negativi".
Per anni, Iguchi
ha fotografato oggetti. Malato di
cancro allo stomaco e scampato ad un
tentativo di farla finita, si interessa morbosamente alla giovane donna
seguendola ovunque dopo aver intuito il malessere che la imprigiona. Per
lei, Iguchi organizza i rituali di una trasgressione, un’uscita di sicurezza
dai limiti che, pur davanti alla prospettiva di una mutilazione necessaria
(perdere un seno, privare chirurgicamente il corpo di una chiave d’accesso
al desiderio maschile), possa farle conservare la dignità. A suo modo,
Iguchi si fa carico di educare anche Shigehiko all’amore incondizionato per
la consorte. Con un black-out, ne affina la percezione del mistero
mostrandogli la vera Rinko in una stanza segreta, poi per strada, il corpo
vestito di sola pioggia e un vibratore infilato nella vagina. Sgomento,
Shigehiko non può che arrendersi ad una rivelazione che parte essenzialmente
dalla bruciante sconfitta di quel principio di decoro che lo aveva portato
alla sterilità dei sentimenti, vera e propria materia morta del suo
quotidiano. Occhi da risanare con una terapia voyeuristica. Odioso, il suo
sguardo bovino in macchina. Miserabili i gesti, la maniacale ossessione per
l’igiene domestica: pulire, strofinare e mai scopare. L’impuro, lo
sporco come antagonista in un’ottusa e al tempo stesso distorta adesione al
modello del bishōnen, il tipo asessuato, alieno/alienato, con l’idea
fissa di purificarsi dalle ‘parti inquinatè del mondo esterno.
Si può pensare a
Rokugatsu no hebi (questo il titolo originale di A Snake of
June)
come ad una ‘version’ de Il Gioco di Milo Manara con il mood di
The Addiction di Abel Ferrara. Primo film di Shinya Tsukamoto
distribuito in Italia, nono titolo della filmografia di questo
regista/sceneggiatore/attore/art director/montatore/direttore della
fotografia nato a Shibuya, Tokyo, Japan nel 1960. Diverso l’uso della
colonna sonora, ancora una volta affidata a Ishikawa Chu ma qui severa, da
requiem, rispetto ai rumorismi che commentavano le immagini di Tetsuo.
Lunga la gestazione (la prima idea risale a quindici anni fa) e quasi
assente l’elemento fantastico. Se cambiano alcuni ingredienti, non è
cambiato Tsukamoto. Lo riconosci dal ritmo sincopato del racconto, da
uno stile che nella maturità ha conservato l’impatto violento dei caustici
esordi (discorso che vale anche per David Cronenberg, cineasta al quale
Tsukamoto è stato spesso accostato), l’attenzione mai mediata dal simbolo a
sesso, vita e morte in opere brutalmente eleganti come le fotografie di
Andres Serrano o del conterraneo Nobuyoshi Araki, artista che in Giappone
continua a subire la
censura e che nel 1990 documentò con le immagini la
consunzione per malattia della moglie Yoko.
Rokugatsu no
hebi parla delle convenzioni che diventano parte di una strategia di
controllo. "Fotografare è fermare il tempo, fotografare è uccidere" è una
famosa frase di Araki. Il voyeur che perseguita Rinko vuole distruggere il
bozzolo che avvolge l’oggetto delle sue attenzioni per liberare una donna
annichilita dall’insoddisfazione fino all’impossibilità di decidere le sorti
del corpo. È un invito a rispondere al richiamo delle pulsioni, ad esporre
la pelle che vibra in un orgasmo liberatorio in faccia a chi si estingue a
rilento stroncato dal cancro del perbenismo. Si muore anche (soprattutto) di
questo, oggi. E questa morte la chiamano ‘vita civilè.
Nino G. D’Attis