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Regia:
Atom Egoyan |
Interpreti:
Charles Aznavour, Eric Bogosian, Christopher Plummer, Brent
Carver, Bruce Greenwood, David Alpay, Marie-Josee Croze, Arsinee
Khanjian, Elias Koteas |
Soggetto: Atom
Egoyan |
Sceneggiatura:
Atom Egoyan |
Fotografia: Paul
Sarossy |
Scenografia:
Phillip Barker |
Costumi: Beth
Pasternack |
Musica: George
Fenton |
Montaggio: Susan
Shipton |
Produzione:
Robert Lantos, Atom Egoyan, Sandra Cunningham, Julia
Rosenberg, Simone Urdl |
Paese:
Canada/Francia Anno:
2002 |
Durata: 126' |
Distribuzione: BIM |
Sito ufficiale:
http://www.bimfilm.com/ararat/ |
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Un vecchio
regista di origine armena gira un kolossal sul genocidio del suo popolo. Un
funzionario della dogana canadese non riesce ad accettare l’omosessualità
del figlio. Due giovani sono alla ricerca della verità sui padri scomparsi,
l’uno ucciso nel tentativo di assassinare un diplomatico turco l’altro forse
suicida. Una madre non sa chiudere i conti con il proprio passato.
I loro percorsi si intrecciano nello spazio e nel tempo attorno al nucleo
narrativo di un’interminabile ispezione doganale e di quattro misteriosi
contenitori di pellicola.
Ararat non racconta il genocidio degli armeni, ne registra l’eco perdurante
nel tempo, ne mostra le tracce lasciate sugli esuli generazione dopo
generazione.
Al suo ottavo film Atom Egoyan non rinuncia a
nessuno dei caratteri stilistici e tematici che gli sono propri:
fluttuazione temporale e frammentazione dello sguardo per illustrare la
crisi dei rapporti umani e della famiglia nell’epoca della riproducibilità
tecnica, per raccontare la ricerca di una verità tanto irrinunciabile quanto
inesorabilmente frustrata.
Presto ci si rende conto di come tutto questo sia qui riportato alla sua
origine, di come il
genocidio
dimenticato degli armeni, e la difficoltà di mantenerne il ricordo nel
silenzio della Storia, abbiano segnato la sensibilità artistica di questo
autore e dei suoi partecipi collaboratori.
Ma nel momento di affrontare faccia a faccia l’orrore, un orrore a lungo
segreto e privo di una sua iconografia, Egoyan sembra sentire con forza solo
l’inadeguatezza dei suoi strumenti d’artista.
Ararat non è un film riuscito, è un film importante, per molti
motivi, ma vederlo significa assistere alla messa in scena di un fallimento.
Eppure…
Eppure ciò che colpisce in quest’opera a tratti ridondante è la profonda, la
commovente autocoscienza del suo autore, l’onestà della sua resa di fronte a
ciò che non può esprimere.
Onestà nell’esporre senza compiacimenti la propria malinconica perplessità
sotto il peso della Storia, di fronte al dolore: quello privato e quello
condiviso che si confondono l’uno nell’altro.
Del resto tutto il cinema di Egoyan si regge sul paradosso di raccontare,
attraverso le (belle) immagini, l’impotenza delle immagini stesse a farsi
portatrici di verità.
Il regista sa che non potrà rappresentare l’irrappresentabile, che non potrà
produrre le prove dello sterminio, le evidenze del dolore, e risolverle in
una liberatoria quanto artificiosa commozione.
Alla
fine del film il pittore Arshile Gorky, esule
armeno morto suicida nel 1948, è di fronte al dipinto che lo ritrae bambino
accanto alla madre, ricordo di una foto scattata pochi giorni prima della
strage. L’opera è compiuta, ma l’ultimo gesto di Gorky cancella le mani
materne. In questa incompiutezza voluta come necessaria sta forse il senso
ultimo di un film che non convince e che non si riesce a dimenticare.
Alessio Trabacchini
Per saperne di più sull’Armenia e
sul genocidio: www.comunitaarmena.it |