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King Lear di Jean-Luc Godard (1987) |
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Dopo una prima visione a Cannes, questo film è rimasto quindici anni senza diffusione. Il contratto è stato realizzato e firmato su un pezzo di tovaglia a Cannes tra Godard e Menahem Golan, padrone della Cannon, società di produzione di film d'azione (impiegati principali: Stallone e VanDamme) che è andata fallita. Dall'inizio Godard lavora contro questa produzione (le prime parole del film sono un messaggio telefonico ansioso del produttore su schermo nero), contro i suoi attori (giustizia in pubblico lo scrittore e sceneggiatore Norman Mailer, un primo Re Lear rigettato, nella prima sequenza del film, montata due volte, dove commenta la sua cerimonia di capricci da star – rilettura ironica del montaggio –). Godard lavora contro, anche perchè si può mettere tra il produttore e il regista e interrogare tutti e due, come in Soigne ta droite dell'anno precedente. Dopo la proiezione a Cannes, il film viene bloccato dalla Cannon che, ormai prossima al fallimento, lo condanna all'oblio. È stato l'acquisto quest'anno della Bodega film e la sua uscita francese il 3 aprile 2002 che lo fa una prima volta (e come prima tappa) uscire dallo scaffale. Dopo una Chernobyl culturale, l'arte non si ricorda più di niente. L'età della riproduzione tecnica del reale e del consumo delle immagini ha fatto dimenticare l'unico modo di sopportare il reale.In un foresta dove i suoi personaggi appaiono e scompaiono attorno a lui, William Shakespeare Jr Quinto parte alla ricerca di un testo del suo antenato. Al tavolo di un ristorante sorprende delle battute di Re Lear nella bocca di un vecchio gangster, Don Learo, e di sua figlia Cordelia. Si mette subito a scriverle e comincia a seguirli. Si ritrova ben presto alla tribù di Pluggy, vecchio saggio del montaggio, isolato con i suoi a una età delle caverne del cinema, dove il fuoco si accende con la pietra e il legno, e una scatola di scarpe genera la luce del proiettore. Pluggy, un J-L.G. buffone e dreadlocked, facendo smorfie (J-P Melville che mimerebbe C. Eastwood) prende in mano il discorso e ironizza sul potere dell'immagine, parla del montaggio (e cuce la pellicola), della forza dell'immagine sul reale, dell'industria e della virtù.King Lear è un eco (un approach?, a study?) che risuona continuamente ma da lontano (Godard ha preteso di non avere letto il dramma di Shakespeare) nel discorso. Power versus vertue sembra il programma di questo contro-film: un film fatto contro i suoi produttori, il suo soggetto, il suo contratto, contro il cinema industriale e contro se stesso... Lear è don Learo, vecchietto mafioso. Lear è un bigunned padre, come Lynch li sogna, con la voce e il volto gonfiati di ira rossa. Che Lear sia un re o un gangster, poco importa; è l'uomo solo, fuorilegge fuori dal luogo del suo potere. Il gangster custodisce con gli occhi e le parole la propria figlia silenziosa, sperando da lei il riconoscimento e l'amore (Godard anche, quando arriva William Shakespeare jr, aspetta un segno d'amore: chiede "le piace il cinema?", come per domandare "le piace ciò che faccio?") Urla il suo potere e il suo desiderio di essere desiderato.
Questa giovinezza ("così poco tenera e così sincera" dice il testo), questa innocenza irriverente di Cordelia è una risposta universale alla forza, quella di Denis Lavant e Juliette Binoche, gli amanti del Pont-Neuf, quella di Leos Carax, forse l'unico figlio del movimento che certo non ne è mai stato uno, chiamato troppo in fretta con il termine giornalistico "Nouvelle Vague" nel 1959. In ogni piano Leos rompe dei fuscellini per fare un fuoco. Frega il legno o batte la selce come per reinventare il fuoco con la sana ingenuità dell'uomo dopo Prometeo. Subito dopo Pluggy, professore di modernità, le mostra come usare l'accendino, cioè battendoli l'uno contro l'altro, come per rompere questo stupido oggetto a pulsante unico. La vita attuale è piena di pulsanti unici. Il cinema può essere ancora un fuoco di fuscellini, per un Carax artigiano. Sopratutto il cinema è un fuoco d'artificio nella mano di Shakespeare Jr, un fuoco d'artifizio, che brilla un istante e muore, un fuoco che nasce da ciò che distrugge. E la gente viene a bruciare il suo immaginario sullo schermo di questo fuoco. La rappresentazione, distruggendo il reale che registra, permette la resurrezione al montaggio di una realtà altra. La distruzione del reale "visto", "toccato", lascia un vuoto, è come la perdita dell'innocenza dello sguardo, se è mai esistito... C'è un punto di fusione tra due immagini che portano due realtà distinte che più sono lontane, più sono tese. Lo dice Godard, lo ripetterà Mister Alien, alias Woody Allen. L'Altro, il montatore, è l'unico creatore. Diverse altre considerazioni del montatore in Godard, empirico eretico, si possono leggere (in linea e in inglese) in una conferenza del 1989 [ www.perso.worldonline.fr/francoischarpentier/NewFiles/godardeditingus.html]
Power versus Vertue o Power with Vertue, il ragionamento è quello che ha fatto Pascal tra giustizia e forza, "non avendo potuto ottenere che la giustizia sia forte, facciamo in sorte che la forza sia giusta". La giustizia al cinema è la giustizia che accordiamo al suo oggetto, al suo soggetto, l'etica del patto risvegliato senza fine con lo spettatore. Non avendo potuto ottenere che la virtù abbia la forza del cinema, facciamo in sorte che l'immagine del cinema sia virtuosa... così potremo dire, ma "innocenza", "virtù", "verginità" sono parole ingrassate di colpevolezza cristiana e ben troppo confuse, forse rimane più giusto "giustizia". Questo combattimento interiore mi pare una linea di forza del film, ecco la forza della ripetizione in tutte le lingue di una battuta: "Se è la sua verginità a darle la forza, le faremo perdere la verginità" Godard accusa la prostituzione dell'immagine e del dispositivo filmico: lo fa soprattutto con l’invadente suono parassita delle insopportabili grida di gabbiano che sporcano tutto (anche il giallo già sporco dell'immagine) o questi rumori di (s)porco (quando si tratta dello spettatore...). Ma trova anche la sua calma, la sua purezza. Quando non sa che filmare, Godard filma il mare: prende il tempo, come gli Straub in Sicilia! Il viso filmato della figlia, dolente forse di essere costretta al silenzio, diventa un ritratto rinascimentale di santa alla Piero della Francesca (spesso Godard pensa più alla pittura che al romanzo).Un giornalista di Libération scrive: "vedere King Lear permette di colmare un buco nella filmografia di Godard. Ma non è solo un buco cronologico, è anche il pezzo mancante che fa apparire un puzzle più largo: nel colloquio personale che Godard intrattiene con se stesso attraverso i suoi propri film, King Lear è certamente un perno. Da una parte si compie un trittico : JLG zio vedovo in Prénom : Carmen (1983) ; JLG idiota dostoievskiano in Soigne ta droite (1987) e oramai il JLG buffone celeste e medusa petomane di King Lear (1986), tra un rasta dreadlocked di fili elettrici e un salice che piange non si sa che morte dell'arte. Strane visioni di sè, che preparano il terreno alla sua opera del 1996 : JLG/JLG Autoportrait de novembre.""La mia solitudine conosce la tua" concludeva Godard nella sua introduzione di King Lear. Olivier Pagani
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