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SVILUPPI NON PREMEDITATI: LA FOTOGRAFIA E L’ARTE (ANNI SESSANTA – SETTANTA)    di 

 

Vito Acconci, Other Voices for a Second Sight, 1974

La fotografia è uno degli strumenti e dei materiali privilegiati dell’arte contemporanea. Alla fine degli anni Sessanta, numerosi artisti hanno cominciato ad utilizzarla come medium, cioè come mezzo d’informazione e come documento. Questi artisti, definiti come ‘concettuali’, opponevano sistematicamente l’idea, lo studio e l’atteggiamento dell’artista, il processo creativo, insomma, all’opera d’arte come prodotto finito. Bernd e Hilla Becher – che avevano iniziato nel 1957 il loro inventario tipologico – furono assimilati a questa tendenza eterogenea alla quale venivano affiliati nello stesso tempo artisti estremamente diversi come Bruce Nauman, Dennis Oppenheim, Vito Acconci da un lato, e Joseph Kosuth, Douglas Huebler, Hans Haacke dall’altro, o ancora Jan Dibbets, Richard Long, Dan Graham e Edward Ruscha. Il posto occupato dalla fotografia nel contesto dell’arte degli anni Ottanta è, in gran parte, il risultato di quel periodo.

Per Joseph Kosuth, il valore indiziale della descrizione fotografica corrispondeva alla definizione lessicale del dizionario, come dimostra in particolare One and Three Chairs, un lavoro del 1965. In modo semplice ma estremamente efficace, Kosuth diede inizio, insieme ad altri artisti, alla riflessione sulla determinazione linguistica della percezione estetica, che doveva svilupparsi, poi, nell’arte degli anni Settanta.

 

Joseph Kosuth, One and Three Chairs, 1965

Bruce Nauman produsse nel 1966 l’autoritratto intitolato Self Portrait as a Fountain, nel quale l’immagine fotografica (materiale) appare come la realizzazione di un’immagine mentale, in cui il corpo vero e proprio (il corpo alla prima persona) serve da supporto alla messa in scena.

Bruce Nauman, Self Portrait as a Fountain, 1966-1967

Kosuth interveniva sulle strutture semiologiche della percezione; Nauman, invece, mostrava il processo d’incarnazione di un’immagine mentale (di un desiderio), processo di cui l’immagine fotografica costituisce la traccia precisa (poiché riproduce l’azione nel suo farsi) e, perciò, la realizzazione stessa.

Nauman è riuscito a realizzare la trasposizione (l’attualizzazione) di un’immagine mentale in un’immagine fotografica tramite l’azione e la sensazione; l’immagine (o icona) fotografica non fa che trasmetterci la forza di questa sensazione e, nello stesso tempo, la forza di un immaginario molto specifico (o idiosincratico).

In un contesto diverso, quello dell’intervento (Earth Art), Richard Long produsse nel 1967 alcune azioni simili a quella di Nauman, al termine delle quali il documento fotografico ha più o meno lo stesso effetto. In questo caso, l’immagine definisce il campo visivo di una traccia (o incisione) realizzata effettivamente in un certo luogo. Il documento come traccia dell’azione, fissa il processo di visualizzazione dell’immagine mentale che ha determinato l’intervento fisico. La fotografia non rende il processo stesso nel suo farsi (come, ad esempio, un documento video), bensì lo schema concepito inizialmente e prodotto (o meglio riprodotto), nell’ambito naturale. Pur non assumendo qui lo stesso valore iconico che Nauman le attribuisce, la fotografia ha però, in questo, la stessa necessità.

Richard Long, A Line Made by Walking, 1967

Long, Nauman (e un po’ meno Kosuth) hanno saputo dare alla descrizione fotografica una nuova pertinenza perché hanno saputo situarla in un contesto che va al di là di essa. Anche se Kosuth crede forse meno all’immagine, possiamo dire che questi tre artisti hanno avuto il merito di risituare la fotografia tra il concetto (definito come intenzione o come immagine mentale) e l’esperienza materiale. Kosuth mette a confronto l’immagine di una sedia, l’oggetto stesso e la sua definizione lessicale. Long e Nauman utilizzano la fotografia come realizzazione immaginaria o iconica di un’immagine mentale realizzata precedentemente nel caso di Long o simultaneamente nel caso di Nauman con un materiale (la natura, il corpo) diverso dal supporto fotografico. I dati descrittivi forniti dalla registrazione fotografica assumono così un peso supplementare.

Bernhard und Hilla Becher, Anonyme Skulpturen, 1970

Bernd e Hilla Becher, dal canto loro, sono stati associati all’arte concettuale o al minimalismo secondo una logica di assimilazione retrospettiva. Il punto di partenza del loro lavoro è l’interesse per le vestigia della cultura industriale (in via d’estinzione) e non tanto l’invenzione (o la ripresa) di un processo artistico. Avevano a loro disposizione un modello estremamente efficace per definire il loro metodo tipologico: l’opera incompiuta del ritrattista August Sander. La prima raccolta di fotografie è stata però pubblicata nel 1970 sotto il titolo Sculture Anonime, mentre la produzione degli anni Ottanta si intitola semplicemente Cisterne, il che dimostra che la mediazione rappresentata dal riferimento alle categorie artistiche aveva un ruolo importante nella comunicazione delle loro immagini negli anni Sessanta. Il riferimento alla scultura era d’altronde onnipresente nelle creazioni artistiche più disparate apparse alla fine degli anni Sessanta ed è chiaro nell’opera di Nauman e Long.

Nel 1969, in Gran Bretagna, Gilbert & George realizzarono le prime ‘sculture viventi’. Conseguenza logica, la fotografia fece la sua prima apparizione nel loro lavoro due anni dopo, come il supporto più adatto ed efficace di una serie di messe in scena. La registrazione fotografica rappresentava per loro e per molti altri artisti della fine degli anni Sessanta, un mezzo comune per estendere il territorio dell’arte al campo altrettanto comune dell’esperienza.

In quegli stessi anni si assiste ad un profondo rinnovo della questione della percezione e della sua trascrizione, questione fondamentale fin dal Rinascimento, ma la novità appare forse più nella formulazione che nelle soluzioni proposte.

Gilbert & George, The Singing Sculpture, 1970

La questione non veniva più affrontata secondo una logica sintetica, né sottomessa all’intenzione dichiarata da Cézanne di produrre un’opera parallela a quella della natura. Il fatto di rinunciare all’opera come fine (ossia come finalità e come realizzazione) costituiva una sospensione della sintesi (simile alla sospensione del giudizio della fenomenologia husserliana) e provocava una frammentazione analitica radicale. Gli artisti scelsero come oggetto di studio e d’intervento – oppure vollero trasformare – non solo le esperienze comuni della vita quotidiana ma anche gli stessi processi percettivi (dell’azione percettiva), per quanto apparentemente insignificanti. In tale contesto, l’happening e la performance ebbero un ruolo di primo piano.

Secondo la formulazione di Kaprow, l’happening doveva costituire una specie di estensione dell’action painting alla totalità dello spazio fisico (così come le combine paintings di Rauschenberg esprimono l’utopia di un’estensione della pittura alla totalità del mondo), ma, in realtà questo tipo di manifestazione servì ad indicare soprattutto la molteplicità delle azioni e delle percezioni possibili.

 Allan Kaprow, Yard, 1961 (ph. Robert McElroy)

 

Sotto la spinta dell’happening e della performance, intesi come sperimentazione di azioni effimere e prive di oggetto (come la danza) o di azioni sugli oggetti (come quelle di Oldenburg), la scultura americana della fine degli anni Sessanta assimilò la manipolazione e la messa in scena di materiali estremamente eterogenei e una più vasta coscienza dei diversi modi di percepire la forma plastica.

 

Làszlò Moholy-Nagy, Photomural, 1935

 

 

 

Negli anni Venti, Moholy-Nagy aveva affermato la distorsione analitica e frammentaria della visione operata dalla fotografia, che rappresentò uno dei campi di sperimentazione favoriti del Bauhaus. La macchina fotografica non costituiva più soltanto uno strumento accessorio o un succedaneo degli strumenti grafici tradizionali; essa era diventata un nuovo organo di percezione. Benjamin riassume così l’efficacia della fotografia:

"Solo la fotografia può informarci sul carattere inconscio della vista, così come la psicoanalisi ci informa sul carattere inconscio delle pulsioni".

 

Benjamin parla dei meriti della registrazione fotografica nel campo dei fenomeni inaccessibili all’occhio umano. Gli esempi da lui scelti (il movimento in atto, la struttura dei micro-organismi) illustrano lo stesso processo di frammentazione analitica mediante interruzione o separazione. Ma questo stesso procedimento è valido al di fuori del campo specifico degli studi scientifici e sperimentali in quello, più comune, dell’esperienza e in particolare nel campo della percezione urbana.

 

Lee Friedlander, Kansas City – Missouri, 1965

 

 

Walker Evans, Alabama Cotton Tenat – Farmer Wife, 1936

 
 

Le strutture percettive e comportamentali di certi ambienti urbani rivelate dal lavoro di Lee Friedlander e Gary Winogrand negli anni Sessanta non sono meno sorprendenti di quelle dei micro-organismi nascosti nel corpo umano. La scuola di Chicago (Callahan, Ray Metzker...) può essere considerata oggi come una zona di scambio fra la tradizione del Bauhaus (ricreata a Chicago da Moholy-Nagy) e la fotografia ‘di strada’ (street photography) derivata da Walker Evans e Robert Frank.

La parte più interessante della produzione artistica degli inizi degli anni Sessanta è, appunto, in gran parte il frutto della convergenza di una disciplina concettuale e di un’esperienza fotografica determinata dall’ambiente circostante e dagli elementi visivi della cultura vernacolare (che trasformano il patrimonio ereditato dalla cultura artistica tradizionale). Questa convergenza ebbe luogo in particolare negli Stati Uniti e in Canada.

In Europa, l’opera di Gehrard Richter e Sigmar Polke è ampiamente influenzata dalla fotografia. Nell’atteggiamento di sperimentazione permanente di Polke, il processo di registrazione e il processo di appropriazione sono strettamente connessi l’uno all’altro. La fotografia ha un valore pittorico tanto quanto la pittura ha un valore fotografico. Si possono distinguere qui tre proposte specifiche: la reversibilità del processo negativo-positivo [1]; la rivelazione dello spessore dell’istante [2]; il quadro come riproduzione[3]

Gerhard Richter, Familie Schmidt, 1964

 

Anne Richter ha prodotto fotografie con una certa regolarità a partire dal 1962; ha cominciato a combinare su diverse tele immagini tratte da riviste (che rappresentavano in particolare i crimini e i massacri della Seconda Guerra Mondiale). Ma le sue intenzioni divennero chiare con l’eliminazione di ogni effetto drammatico e con la banalizzazione dei soggetti scelti e, nello stesso tempo, dell’intervento artistico. Sceglieva fotografie insignificanti, ‘banali’, estremamente semplici nella composizione, e le dipingeva senza aggiungere niente (senza nessun intervento, nessun collage) alla semplice riproduzione. Richter anticipava così il fotorealismo americano, invertendo la formula di Benjamin: non è più l’opera d’arte che diventa riproduzione ma quest’ultima che diventa opera d’arte.

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[1] la fotografia non è necessariamente una successione irreversibile di negativo e positivo, l’elaborazione del positivo può rendere i valori del negativo.

[2] la registrazione interrompe il flusso delle immagini e ritaglia uno spazio determinato ma questo processo non è irreversibile e, grazie all’elaborazione del positivo, il flusso visivo può essere ricostituito così come il carattere indeterminato dello spazio.

[3] La pittura non è necessariamente rappresentazione ma può essere considerata riproduzione proprio come una fotografia, il che definisce l’attività pittorica come produzione e integrazione di ‘incidenti’ e non più soltanto come un concatenamento di soluzioni, di trovate e di errori rettificati