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L’UNIVERSITÀ IMMANENTE |
Come dire “l’infinito contabile”, enumerare le galassie e dire “io sono iscritto a lettere”. Fasto dell’antichità, putrescenza da consiglio comunale, l’università è stamberga, truogolo della cultura, dell’inseminazione artificiale dei cervelli, sacro delubro della normalità, formicaio di studentelli ligi ai propri doveri (ma devono proprio?), ultima reminiscenza del medioevo che fu, feudalesimo della cultura statale. Di quando in quando il popolino consegna il suo tributo, dà gli esami, cioè tradisce la sua naturale inclinazione al riconoscimento della sovranità. Qui regna il rettore, uomo per il solito dal ventre pingue e dal cervello magro, laureato in politica 110 e frode. Ma la struttura piramidale dell’università è congegnata davvero bene, abbastanza bene da far credere alla maggiore parte degli avventori di questo luogo che sia un posto conforme ai nobili principi della democrazia; tant’è: se da una parte gli intelletti si prostrano al passare del magnifico, dall’altra si lascia che gli studenti abbiano l’impressione che tra i corridoi degli atenei si possa razzolare in libertà, e dagli! Ecco ciurme di giovani imberbi armati di pennarelli ad impiastricciare le latrine, scorribande dialogiche pomeridiane dedite devote a sollevare problemi di cui nessuno si picca, problemi divenire seri solo perché qualcuno parla di essi seriamente; ecco, in buona sostanza, il premio volgare che il volgo stesso dimostra di gradire. Come liberare un insetto che avevamo segregato in un’ampolla e farlo poi svolazzare “felice” fra le quattro mura della nostra stanza stando ben accorti che porte e finestre siano sigillate. Così ronza la vita. E gli imenotteri ringraziano il carceriere. Tanto più che all’università si flirta, e sappiamo tutti quanto l’essere umano sia avvezzo al corteggiamento. Ma, ad essere onesti, a corte di questo palazzo non ci si diverte poi neanche tanto. Le donnicciole col quaderno in mano, audaci e sciolte nelle belle terga, son tutte dedite alle più infami scorrerie di appunti, scribacchiano e così trapassano dell’anno e della vita il più bel fiore. La penna, sorta di bel fallo che hanno in pugno, elargisce generosa il seme negro; il foglio candido dapprima e intonso, riesce infine come tumefatto da tanto ardore. A godere di tale amanuense orgasmo esse osservano con le guance accese di rosea malizia, perfette voyeur della perversione culturale. Scopofile. Perversione culturale si diceva, tanto che qui si esercita l’intelletto al periplo vizioso: il professore erudisce l’allievo sul suo momentaneo oggetto di studio per poi rifarsi erudire in sede d’esame su quello che già sa, simulando(?) la curiosità del neofita, sorbendo instancabile la sbobba mille volte mille, come tutto preso da libido e masochismo, sempre compiaciuto d’ascoltare il frutto delle sue meningi dalla bocca (orifizio tutt’altro che nobile) degli adepti. All’università si scambiano le idee come fossero figurine Panini ma tutti, guarda caso, sono pieni di doppioni. Tutti vogliono fare la medesima cosa ossia farsi circoscrivere il capo della bella verzura e così insinuare il sommo quesito: chi sia l’uomo e quale il vegetale? E se non fossimo morsi dal serpe del dubbio ci troveremmo senz’altro in un mercato ortofrutticolo. L’università vorrebbe far credere alle menti poverine di aprire delle strade, ma nessuno sente l’urgenza di non uscire più da casa per non doverle percorrere? E cosa sarebbe l’universo di fronte al pluriverso? La pluriversità potrebbe chiudere per sempre infiniti subdoli cammini. Queste università, queste stamberghe esistenziali, tradiscono il loro essere spicciole cose in confronto all’immenso, la pluriversità, per contro, trascende tutto questo e infatti non esiste. Ecco il punto: delirare l’infinito in aula magna o morire, per iscriversi alla pluriversità
Gianluca De Rubertis |
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