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Ho appena finito di leggere il saggio di Wu Ming 1 sul New
Italian Epic (scaricabile
da qui ) e sto per inviare le domande a Simone Sarasso, giovane
autore del romanzo Confine di Stato. Opera che può entrare a pieno titolo
nei parametri, ancora incerti da verificare, del percorso indicato da uno degli
autori di 54. Ai fini della discussione con Sarasso, è utile ricordare
alcune delle tesi di Wu Ming 1: l’epica a cui fa riferimento nel suo saggio,
quella che permette di avvicinare
Romanzo Criminale, le opere dello
stesso collettivo bolognese e Gomorra, per citarne alcuni, è la capacità
di narrare la storia attraverso un racconto che non si esaurisce in se stesso ma
è tessuto vivo di una narrazione di più ampio respiro. Il tentativo cioè di
raccontare la storia, quella grandiosa e viva, attraverso la fiction, senza che
questa sia un genere ‘chiuso’ e ‘unico’, ma qualcosa di altrettanto vivo e
pulsante, che si nutre di tecniche varie e funzionali all’intento dell’autore.
Questo è il saggio di Wu Ming 1 raccontato in modo piuttosto rozzo e
semplicistico. E anche analizzando il singolo Confine di Stato, gli
spunti sono molteplici. Partiamo da un fatto, dunque: il romanzo di Sarasso è
avvincente.
Un affresco dell’Italia oscura e misteriosa che parte dal
dopoguerra e accompagna il lettore attraverso le zone d’ombra di un Paese in
crescita (?) fino alla strage di Piazza Fontana. L’Italia sotterranea che vive
di due tessuti paralleli, quello ufficiale e quello che attualmente rimane
ancora coperto; l’Italia che cambia, quando riesce a farlo, prima nei palazzi
del potere e poi per le strade.
Il delitto Montesi, la morte di Enrico Mattei, quella di
Giangiacomo Feltrinelli e la strage di Piazza Fontana sono gli avvenimenti
cruciali attorno ai quali ruota la narrazione di Sarasso e dietro i quali si
incrociano giochi di potere e debolezze umane, perversioni e ragioni private.
Sono le storie dei piccoli personaggi – spie, politici, giornalisti, militari, i
cui nomi reali sono cambiati – a comporre l’universo gigantesco che l’autore
mette in scena, molto simile a quello dei fumetti americani. In ognuna delle
piccole vite che compongono un più grande e quasi involontario mosaico, c’è
l’eco della storia, quella con la ‘s’ maiuscola, che si avvicina, inarrestabile
e viva.
Confine di Stato
è dunque un libro molto ‘americano’ in questo senso, che si nutre di realtà per
intrigare con la finzione, che riesce ad affascinare partendo da ciò che è
intorno, che investe la recente storia italiana per accendere una luce e
renderla affascinante. Per renderla viva.
Tornando al saggio di Wu Ming 1, si fa riferimento
all’allegoria: se ogni romanzo è un’allegoria, poiché rimanda a un altro tempo
(tempo in cui è stato scritto, tempo del racconto, tempo in cui viene letto e
possibilmente interpretato), la buona riuscita di un romanzo ‘storico’ dipende
dalla capacità di rappresentare nella maniera quanto più universale possibile
un’epoca: in modo che rimanga intenso col tempo e non finisca col rappresentare
solo se stesso. In altri termini: sopravvivere alla storia e rappresentare un
racconto senza tempo (è il caso, citando sempre Wu Ming 1, di Robin Hood, che è
un allegoria che funziona ancora, capace di rimandare a un insieme di
significati ancora decodificabili dal lettore). Così Confine di Stato,
oltre che raccontare una storia recente, riesce comunque a suonare del tutto
familiare proprio in questi anni: ci sono due pezzi di un Paese in guerra tra
loro (DC e PCI), due pezzi che si spiano a vicenda. Ricorda qualcosa?
E le guerre, per tornare al racconto, si fanno con le spie:
una di queste è il personaggio centrale del romanzo, Andrea Sterling. Un
personaggio che cresce dall’inizio alla fine di Confine di Stato fino a
diventare l’incarnazione del male assoluto. Emblema di quei Servizi deviati a
cui spesso si fa riferimento nel corso della recente storia italiana, Sterling è
soprattutto una figura nichilista, malata, onnipresente: è il male assoluto, per
l’appunto, a cui Sarasso non nega una storia personale di assoluta psicosi. Non
c’è operazione di spionaggio, sabotaggio o eliminazione in cui Sterling non
riesca a muoversi come uno squalo, senza provare alcunché di umano.
Detto questo, Confine di Stato ha innanzitutto il
pregio di farsi divorare. Non è perfetto e ha molti debiti – come specificato
dallo stesso autore – nei confronti dei vari Ellroy, Genna, Wu Ming. Ma riesce
benissimo nel suo intento: incanta, accende una luce sulla memoria, accompagna e
poi abbandona il lettore davanti all’unica risposta possibile di fronte alle
domande disseminate nel corso della narrazione: Non è successo niente.
***
Innanzitutto,
come hai organizzato il tuo lavoro: alla base di Confine di Stato c’è
sicuramente una grande opera di documentazione. E poi, come questa si è
incrociata con la fase di scrittura vera e propria?
Tutto è successo per gradi: per un anno e mezzo ho vissuto esclusivamente in
mezzo ai documenti. Ho iniziato dalla rete e sono finito negli archivi. Ho poi
cominciato a scrivere con uno scopo ben preciso: cercare di rendere
comprensibile per il lettore ciò che spesso i documenti dicevano in
burocratese. Mentre mi documentavo, capivo. E ogni singola illuminazione
diventava una scena (parecchi dialoghi tra Trama e Mario Rossi sono trascrizioni
dei miei appunti; le domande che Trama fa a Rossi sono le domande che io facevo
ai documenti. Non sempre le carte sono state più sincere del mio personaggio, e
questo credo che dia la misura del lavoro documentario). Quando raggiunsi un
certo numero di “punti fissi” vi costruii attorno la struttura del romanzo.
A proposito di scrittura: lo stile. È sicuramente semplice, crudo,
cinematografico, funzionale alla storia che racconti. Credi che fosse l’unico
stile possibile per CdS? E un’altra cosa: nel saggio di Wu Ming 1 sul New
Italian Epic si parla della sperimentazione nascosta di Nelle mani giuste
di De Cataldo: lo stile ‘apparente’ è frutto di una sperimentazione operata
quasi dietro le quinte e che quindi sfugge a una lettura veloce. C’è qualcosa di
simile nel tuo modo di scrivere?
Il discorso sulla lingua che Roberto (WM1) fa a proposito di Nelle mani
giuste è più facilmente accostabile a Settanta (il seguito di
Confine di Stato alla cui stesura mi sto dedicando in questi giorni) che al
mio romanzo d’esordio. Sempre con le molle e i debiti paragoni. De Cataldo è un
maestro del linguaggio e l’approccio under cover che usa nel sequel
di Romanzo Criminale è veramente una vetta altissima di sapienza
narrativa. Io sto provando qualcosa di simile nel mio nuovo libro, ma credo che
i risultati saranno ben altri. In Confine, invece, l’approccio era
completamente diverso. Usavo il linguaggio per stigmatizzare i personaggi. Li
volevo bidimensionalizzare il più possibile, di modo che i cattivi e i buoni
fossero cattivi e i buoni da film western. Univoci e inappuntabili nella loro
grandezza o meschinità. Di conseguenza dovevano parlare una lingua irreale. Una
lingua da film americano in traduzione. Una lingua fatta di “dannato”,
“fottuto”, et similia. Una lingua che esiste solo al cinema.
In CdS si racconta di un’Italia sotterranea che è comunque – ci si augura – più
o meno nota a tutti. Quello che mi ha molto colpito è stata anche un’altra cosa:
gli usi e i costumi della nascente media borghesia italiana degli anni ’50. Mi
riferisco all’arrivo della droga in Italia, i costumi sessuali tutt’altro che
morigerati nonostante l’idea che credo rimanga ancora oggi di quel Paese
democristiano. Quanto hai esagerato e quanto, invece, c’è di vero?
Il punto è che non ho inventato pressoché nulla. Se anche Wilma Montesi non è
morta in un festino di quelli che racconto io, quel tipo di orge avveniva
davvero e le modalità di “svolgimento” erano grosso modo quelle che
descrivo nel mio romanzo. Nella Roma dei Cinquanta (esattamente come nella New
York o nella Chicago dei Cinquanta) girava un sacco di roba. Roba che veniva
direttamente dagli States per soddisfare le esigenze delle “personalità” più in
vista (i tempi del buco e dei tossici che ci lasciavano le penne agli angoli
delle strade erano ancora di là da venire. All’epoca la roba era “roba da
ricchi”). La coca circolava più dell’eroina (che avrebbe preso piede più tardi)
e parte della bamba che girava nella capitale veniva prodotta in Italia.
Insomma, per farla breve, non è vero che “si stava meglio quando si stava
peggio”. Una volta, qui, NON era tutta campagna, signora mia. Il paese è sempre
stato un merdaio. Allora come ora. È che se ne sapeva poco o nulla, tutto qui.
Sempre nel saggio di Wu Ming 1, si fa riferimento alla scena di Grande Madre
Rossa di Giuseppe Genna, che tu citi nel libro come ispiratrice per la
sequenza iniziale di Cds, quella della bomba di Piazza Fontana. Per Wu Ming 1 si
tratta di un esempio di ‘sguardo obliquo’, uno sguardo impersonale capace di
posarsi ovunque senza appartenere a nessuno se non, forse, al solo lettore
(“sguardo di uno sguardo”). In Grande Madre Rossa quello sguardo scompare,
mentre ho avuto l’impressione, nel tuo libro, che sia proprio quello sguardo a
guidare la lettura attraverso i microcosmi che presenta (le vite dei
personaggi), scandendo ogni passo dell’immenso mosaico che si viene lentamente a
costruire. Per fare un esempio, nella prima parte si ha l’impressione che il
protagonista possa essere il giornalista Lorenzo Trama, poi la cosa cambia
radicalmente e si manifesta (è il caso di dire) Andrea Sterling (evito di
spiegare come per non rovinare la sorpresa).
Quando lessi la scena dell’esplosione del Palazzo di Giustizia in Grande
Madre Rossa restai folgorato. Ricordo ancora l’esatto momento in cui la
lessi: cosa stavo facendo, com’ero vestito, che stavo bevendo. Quel passo, per
quanto mi riguarda, è uno dei fondamentali dell’intera produzione letteraria
italiana del XXI secolo. Quando ho iniziato a pensare a Piazza Fontana, volevo
che quello fosse lo sguardo sulla tragedia. Chiesi il permesso a Giuseppe, ché
in quel caso si sarebbe potuto parlare più di plagio che di citazione, ed egli
non ebbe niente in contrario, anche se mi fece notare la pesante sincronia. Ma
quella fu davvero una delle primissime scene che scrissi. Ancora il romanzo non
esisteva. Difficile postulare che lo contenesse in nuce. O forse,
inconsciamente, mi era già tutto chiaro. Davvero non saprei che dire. Mi piace,
però, che la ricezione attuale di questa scena sia quella a cui accenni tu. Lo
shift continuo da protagonista a protagonista, invece, quello è più che
voluto. E ha una valenza narrativa oltre che una funzione destabilizzante nei
confronti del lettore: sta a significare l’assenza di punti di riferimento nella
vicenda corale del Bel Paese del dopoguerra.
Come nasce Andrea Sterling? Ho letto che per te è stato quasi la sintesi della
colpevolezza di più persone che non hanno mai pagato per le stragi e le
deviazioni dello Stato. Perché hai scelto di dotarlo di un passato che, in
genere, rischia di ‘giustificare’ un personaggio cattivo?
Sterling è il colpevole per eccellenza. L’incarnazione del male. È esattamente
il responsabile che la magistratura non è mai stata in grado di inchiodare. È il
tizio con cui prendersela. Il suo passato è una storia che sentivo di dover
raccontare da tempo. Sterling e “ciò che è stato prima di lavorare per il
governo” (uso una perifrasi per non rivelare nulla al lettore) si sono
semplicemente incontrati, durante il processo creativo. Ad ogni modo, quel
particolare passato non credo che giustifichi, anzi. È l’ennesimo lato oscuro
del Paese di Merda (per citare il mio maestro Genna). Il male genera male, non è
solo questione di karma.
Leggendo CdS, oltre alla letteratura cui fai riferimento, mi sono venuti più
volte in mente i comics americani: non solo il Garth Ennis de Il Punitore,
ma anche Marvels di Busiek/Ross per il mix storia/fiction e l’opera di
Frank Miller e Alan Moore in genere (penso a Watchmen). Non a caso è
venuto fuori United We Stand, prima graphic net novel italiana, che parte
da CdS e ne frantuma maggiormente l’universo. Cos’è esattamente UWS?
United We Stand
è uno dei futuri possibili di Confine. Il protagonista è lo stesso (Sterling
è sempre nei miei pensieri), solo riadattato al ruolo: più giovane, per essere
credibilmente operativo all’epoca dei fatti; con un passato diverso (più adatto
alla storia). United We Stand è il tentativo di fare i conti con la vera
feccia. È la concrezione di diversi incubi tipici degli anni ’80: l’atomica, il
sovvertimento militarizzato dell’ordine costituito. È il mio modo di fare pace
con il mio immaginario di riferimento, che va da Alba Rossa di Milius a
Rambo, da Gunny a Commando, passando per War Games
e Sindrome Cinese.
CdS è il primo capitolo di una trilogia sulla recente storia italiana. Perché
hai indirizzato la tua scrittura in questo senso e, nel limite delle sorprese
che puoi svelare, cosa ci aspetta per il futuro?
La mia “trilogia” sporca arriverà fino a Tangentopoli. Nel prossimo volume,
però, si tratterà esclusivamente il decennio 1970-1980. Ecco perché il secondo
romanzo si chiamerà, didascalicamente, Settanta. Le ragioni che mi hanno
portato a narrare questo tipo di storie sono parecchie, ma credo che su tutte
troneggi la rabbia per i colpevoli mai trovati. Nessuno è colpevole per Piazza
Fontana, e per parecchie delle altre carneficine che hanno insanguinato il
paese. Dare volto e nome ai responsabili, di modo da avere qualcuno con cui
prendermela, finalmente. Magrissima consolazione, ma sprone narrativo decisivo.
Grazie.
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