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GIAN CARLO FUSCO: A Roma con Bubù (Sellerio, pp. 232 € 10,00)

 

GIAN CARLO FUSCO: A Roma con Bubù“È il tramonto, bambina mia, è il tramonto...”

(Gian Carlo Fusco in Capricci di Carmelo Bene, 1969)

 

L’avventura, solo l’avventura o il tramonto. Come in Paura e disgusto a Las Vegas o ne Il Sorpasso, oppure in un episodio della saga del commissario Sanantonio e del suo inseparabile pard Berù: due uomini a zonzo, un italiano e un marsigliese trapiantato a Milano. Lo scriba e l’amico cresciuto con le sacre regole del milieu in fuga verso Roma, Hollywood sul Tevere, principato della Dolce Vita (“più immaginaria che reale”), città sfavillante, generosa coi nottambuli. È lo stivale postbellico che corre verso il Grande Boom. È la sbronza colossale preparata nell’apposito shaker dal leggendario Victor Tombolini mentre Nicola Arigliano canta Arrivederci. È la Thunderbird rosa di Fred Buscaglione che sfreccia in via Nazionale. È il culo di una che da lontano somiglia a una famosa star americana e forse è proprio lei in incognito, probabilmente a Roma per un film. Forse il film è questo, con il corpulento Bubù che impreca alla nizzarda («Mort mortasse!») e le insegne che scintillano ai due lati di via Veneto.

   Ritratti. Ambienti. Caratteri. Il bagaglio di Gian Carlo Fusco, un uomo che buttava giù storie a raffica spremendo dalla vita tutto quel che c’era da raccontare: il fascismo, la guerra in Albania, l’industria del cinema italiano, la vita delle entreneuses e quella del campione di Lascia o Raddoppia Lando Degoli, il milieu marsigliese e la mafia siciliana. In un altro tempo, certo. In un’Europa molto diversa da quella che conosciamo oggi. Una scintilla tira l’altra, notte dopo notte dopo l’aperitivo serale a Rapallo, a Venezia, a Milano, nello swing romano di Orson Welles ribattezzato Orso, del Pipistrello o del Club 84 frequentato da Maurizio Arena, Walter Chiari, Vittorio Caprioli e Ugo Tognazzi.

  “Via Veneto attirava irresistibilmente Bubù. Per lui, era una strada con attorno una città. Era il cinema. La vetrina mondana. L’anticamera del successo. La possibilità di qualsiasi possibilità.”

   La storia (anzi, la matrioska di storie) ha inizio quando Bubù e Janò, formidabile coppia da cartoon Hanna & Barbera salva una prostituta tossica dalle grinfie di una banda di balordi che la tiene rinchiusa in una baracca. Lei si chiama Lilly Cassandrà, ex soubrette della rivista Paris en manège: “A quel tempo era sulla trentina. Aveva due magnifici occhi, verdi come scarabei, due gambe sterminate, dieci bauli di vestiti, cinque pellicce, gioielli e diversi milioni da parte.” Caduta in disgrazia, povera crista: dalla Francia all’Italia, tutto in discesa. Tirarla fuori dai guai armi in pugno è un attimo, ma le conseguenze dell’atto eroico non tardano ad arrivare: se Gino il Meccanico, il cattivo di turno, se la lega al dito e impianta un casino, tagliare la corda alla svelta è cosa buona e giusta.

   Via dalla Madonnina, sull’Autostrada del Sole senza sole: “Grigia. Come il cielo. Come i guanti di Bubù, stretti al volante di ebanite nera. Come la siepe stentata messa a dividere le due corsie. Come i miei pensieri, rivolti con malinconia alla città che si stava allontanando alle nostre spalle.”

   Giocarsi le carte in una metropoli per certi versi non molto dissimile da quella che conosciamo oggi, défilé mondano di zelanti sbruffoni che perdono tempo tirando giù liste di posti in cui andare a cena (da Baffone, da Ciceruacchio, da Cecchino al Mattatoio, da Piperno per i carciofi alla giudia) e ti lasciano al palo se hai bisogno di un lavoro per tirare avanti.

   Romanzo meraviglioso e finora misconosciuto, A Roma con Bubù, Un romanzo-romanzo, un po’ picaresco e un po’ d’azione, ma molto made in Usa.”,  scrive Beppe Benvenuto nella nota in coda all’edizione Sellerio. Bicchieri opalini di pernod, rotoli di cartamoneta infilati nelle tasche dei calzoni, battute fulminanti («Lei dice che Chicco è un buon tipo, ma che ha il vizio della presa. Quando è in coca, in un locale o nell’altro, compie trent’anni. Sono cinque o sei anni che li compie. Quasi tutte le sere») e un po’ di sberle in faccia.

   Giunti all’ultima pagina, riaffiorano di colpo i diversi aneddoti tramandati intorno alla figura di questo freak brillante: la volta in cui dopo una scazzottata con un taxista apprese che l’uomo aveva un figlio gravemente malato e provò pena, quindi vuotò le tasche per donare tutti i suoi soldi al poveraccio. La volta in cui per provocare un delinquente che stava malmenando una ragazza all’interno di un night si cavò la dentiera e la mise nel bicchiere di champagne del bruto. E quell’altra in cui cominciò a raccontare in giro che un suo fantomatico amico aveva ideato l’Energorecuper, dispositivo a pedale che garantiva erezioni immediate anche ai casi disperati.

   Fusco, classe 1915, morto senza una lira nel 1984. «Un grande clown, un buffone di alta classe», a sentire l’amico Manlio Cancogni. Appassionato di boxe, ballo, armi e scrittura, o sarebbe meglio dire affabulazione. Autore di romanzi, saggi, copioni per il teatro e il cinema (prestò anche la faccia in Capricci di Carmelo Bene e in Paulo Roberto Cotechino, centravanti di sfondamento di Nando Cicero) e  pezzi apparsi tra gli anni 50 e 60 su Il Mondo, L’Europeo, L’Espresso, Playboy, Il Giorno ed altre più o meno illustri testate. Fusco, flâneur rifornito di grappa dalla Nardini: una trentina di bicchierozzi al dì, e quando beveva era meglio tenersi a distanza di sicurezza.

   Vengono in mente le parole di Natalia Aspesi nella prefazione all’antologia Il Gusto di vivere (Bari, Laterza, 2004): “È quasi impossibile raccontare la sua vita: se la inventava giorno per giorno, sovrapponeva i fatti, li cancellava, li ricreava. Aborriva, evidentemente, la piattezza della verità: le sue verità erano molteplici, e a tutti ne raccontava una diversa.”

   Si chiama arte di inchiodare il prossimo alla storia (o anche solo alla storiella) che stai raccontando. È qualcosa che nessuna scuola di giornalismo o di scrittura insegna davvero: chi dice il contrario per analfabetismo ottuso, per non deludere le aspettative della clientela, merita come minimo uno scaracchio in faccia e un predicozzo al commissariato del dottor Cardellicchio.

   Sûr. Au cent pour cent!

 

Nino G. D’Attis