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FUSCO STORY |
“Il giornalismo era un mestiere al di sotto del suo talento: alla macchina da scrivere faticava perché la parola scritta gli stava stretta, perché lui, indisciplinato, si struggeva dentro le regole piatte dell’articolo, nel terrore di essere un dilettante. Ma il suo vero mezzo espressivo era la parola orale: a noi, seduti al caffè Fappani di Viareggio, ci annientava, con la sua meravigliosa capacità di raccontare, di rappresentare, con una incredibile sensibilità percettiva, dei fatti che attraverso i suoi gesti e le sue parole diventavano fantastici, storie indimenticabili: quando parlava, era grande come Tolstoi scrittore: se fosse nato in Francia, un paese che avrebbe amato la sua geniale sregolatezza, sarebbe diventato uno chansonnier di talento universale. Chi non lo ha ascoltato narrare della guerra in Albania o della mala di Marsiglia, nelle notti senza fine della Versilia del dopoguerra, non può capire chi sia stato veramente Fusco: il più incantevole degli spettacoli è andato per sempre perduto, tranne che per noi, suoi amici spettatori di un tempo, soggiogati per sempre”.
Un venerdì di settembre, giungo a casa reduce dallo shopping nella libreria di fiducia: ho al sicuro la mia copia de Il Gusto di Vivere. Leggo: In copertina Night Club, Milano 1953. Bene, mi dico, così questo era uno dei posti che così assiduamente frequentava l’autore del libro. Leggo ancora, la nota sottostante mi informa su chi/cosa incontrerò scoprendo infine il retro-copertina: Camilla Cederna e Giancarlo Fusco a cena, Milano 1953. Oddio: tra qualche istante lui avrà infine un viso…In quei pochi secondi che mi separano da tale scoperta, mi domando del perché di tanta curiosità. Sarà colpa delle strane manie del nostro tempo? Della necessità di apparire più che essere, del voler avere a tutti i costi un’idea fisica di chiunque, figuriamoci di chi si cela dietro ad una pagina scritta? Non lo so. È dall’inizio dell’estate che leggo di e su Fusco: alla fine ho fatto un giro su Google Immagini, non ci ho ricavato un bel nulla e la curiosità nei suoi confronti è montata, da questo punto di vista. Ho il testo in mano, lo giro. Eccolo qua, il nostro antieroe, così stranamente borghese nel suo gessato, fotografato in mezzobusto, di profilo, intento ad osservare il movimento delle mani di Camilla, la sua compagna di tavolo, di serata. È lui il tipo che “arrivò a Milano nel ’50 totalmente sdentato e i nuovi colleghi dell’Europeo fecero la colletta per una dentiera. Manlio Mariani, che fu suo collega al Giorno ed era incaricato con altri di sorvegliarlo perché non provocasse risse e non tirasse fuori il coltello che portava sempre in tasca, racconta che una volta, dentro all’Anthony di Lambrate, un locale notturno non dei più raffinati, un certo Michele, noto per la sua violenza, maltrattava una entreneuse; e lui subito, per provocarlo, gli buttò la dentiera nel bicchiere di champagne”. Il suo viso ispira una singolare tenerezza, nell’insieme si ha l’impressione che quel vestito gli stia troppo stretto, come le regole piatte dell’articolo. Mi è venuta così la voglia di raccontare di quest’ometto, di entrare a far parte del manipolo di personaggi che nel corso delle ultimi stagioni ha tentato di “rendergli giustizia a posteriori”. Non pretendo di realizzare una biografia del giornalista (o meglio, una raccolta delle probabili biografie…), non ho mai avuto né le ambizioni né le capacità di realizzare tale operazione. Non credo francamente che il paragone con Hunter S. Thompson ci azzecchi totalmente. D’accordo, entrambi i compositori hanno condotto una “mitica” vita, fatta di dissolutezze, aneddoti, grandi incontri, epici scritti. Non ci azzecca a prescindere dai reagenti chimici assolutamente diversi: l’italiano si accontentava dell’alcol (“Tutti raccontano, con varie sfumature, l’episodio della ditta Nardini che inviava settimanalmente a casa sua un carico di grappa, indirizzato al Bar Fusco, essendo impensabile che una sola persona potesse bere tanto. Beveva quasi esclusivamente grappa, sino a 30 bicchieri al giorno: poi c’era il periodo della birra, poi quello dell’anice”). L’americano era in qualche maniera protagonista delle sue opere, il fulcro, la testa pensante, la figura forte che emergeva. Fusco era umilmente più defilato, grande contastorie (quello de La Colonna, rubrica tenuta sulle pagine del Giorno, o degli scritti raccolti ne Il Gusto di Vivere). Che poi ci mettesse del suo e che lo stile fosse unico, inconfondibile, inimitabile, beh, questo è ovvio. Non avrebbe riscosso tutto questo interesse ancora oggi, nel terzo millennio. Si partecipa con vera emozione ai suoi racconti, nei quali emerge tutta la capacità dello spezzino di prendere l’Uomo Qualunque, l’artista, il politico e di renderlo un soggetto “da film”. Lo afferma anche Andrea Camilleri nella prefazione de Gli Indesiderabili (originariamente inchiesta realizzata dal nostro per Il Secolo XIX, dedicata alla manovalanza mafiosa gentilmente rispedita nel bel Paese dagli States nei primi anni ’50): “A questi “indesiderabili” F. dedica i migliori capitoli del suo libro, essi hanno i toni e i modi di un racconto tanto magistrale da trasformare in personaggi, che paiono inventati con estro inesauribile, persone realmente esistite”. Mi ha personalmente colpito una storia, inserita nel già citato Il Gusto di Vivere (splendida raccolta curata da Natalia Aspesi: imperdibile la sua introduzione). È quella del Generale Pariani, primo attore della guerra d’Albania. A proposito della villa di Malcesine, dove il soldato trascorse gli ultimi anni della sua vita, il nostro scrive: “Più di mezzo secolo fa, il giovane sottotenente degli alpini Pariani ebbe il comando di una piccola squadra di segnalatori che dai contrafforti superiori del Monte Baldo dovevano comunicare con un altro gruppetto di militari accampati al di là del Lago di Garda, sulle alture della riva bresciana. (…) Un pomeriggio, verso il tramonto, finito il servizio, il sottotenente si allontanò dal suo piccolo distaccamento, ed andò ad accoccolarsi, solitario, sulla cima di un dente di roccia. Era primavera, quando i tramonti sul Garda sono lunghi e cambiano dieci volte in un’ora i colori del cielo e del lago. Proprio sotto il giovane ufficiale, a strapiombo, un poco a nord delle vecchie tegole di Malcesine, c’era un breve promontorio coperto d’una vegetazione scura e selvaggia. Quando parve che il sole si fosse del tutto spento dietro le severe rocce che dominano Campione, sulla riva bresciana, un raggio di luce rossastra scivolò su quel promontorio e vi restò a lungo, impigliato fra gli olivastri e i roveti. Il sottotenente, reggendosi il mento con le mani, guardò quell’estremo miracolo del tramonto, poi decise che proprio lì, su quel promontorio, si sarebbe costruita una casa. Un mese dopo, acquistò il terreno pagandolo quattro lire al metro quadrato. In seguito, anno per anno, durante tutta la sua carriera, da subalterno a generale d’armata, costruì, ingrandì e abbellì la villa dove oggi vive con la moglie Giselda e le sue molte memorie. Un uomo che per mezzo secolo tiene fede a un proposito, e si riposa a ottant’anni nella casa progettata a venti, può non essere un campione di fantasia, ma è certamente un esempio di coerenza e di volontà”. “Aborriva, evidentemente, la piattezza della verità: le sue verità erano molteplici, e a tutti ne raccontava una diversa” (Natalia Aspesi) Fusco era dotato di una fervida immaginazione e spesso l’abile trasposizione della realtà si alternava all’altrettanto abile operazione di raccontare eventi (forse) mai vissuti in numerose versioni. Una sorta di remix letterario, al quale succedevano puntualmente diverse rielaborazioni. Questo avveniva soprattutto nell’esposizione orale, quella che affascinava chiunque si trovasse con le orecchie sufficientemente vicine al contastorie. Insomma, il confine tra realtà e fantasia (chi ha detto bugia?) era estremamente labile per l’Uomo della Nardini. Anzi, non esisteva affatto. Pregio? Difetto? Beh, chi non è mai stato un po’ Fusco in vita sua scagli la prima pietra. Quante volte la narrazione di un episodio singolare della nostra vita è stata fortemente colorita di particolari mai emersi in precedenza (perché mai esistiti?), o ripulita con altrettanta energia da altri, in base all’interlocutore che ci sta di fronte? Una manciata di note “biografiche”, per concludere, giusto per dare un senso a questo cumulo di pensieri. Fusco nacque a La Spezia nel 1915. Comunista “cane sciolto”, antifascista militante, si diede alla boxe nell’adolescenza, con risultati poco documentabili. Lui sosteneva di aver vinto diversi incontri, ma gli occhi pesti e i denti persi parrebbero smentirlo. Se ne andò poi in Francia. La sua presenza è testimoniata a Lione e Parigi, ma lui affermava di essere stato a Marsiglia e di aver frequentato la locale cricca di malavitosi. È Manlio Cancogni a introdurlo nel mondo della carta stampata e a farlo volare dalla Gazzetta di Livorno al Mondo. L’autore passò successivamente per le redazioni dell’Europeo, del Giorno (La Colonna) e dell’Espresso, scrivendo inoltre numerosi libri. Tra quelli non citati in presenza, segnalo Le Rose del Ventennio, A Roma con Bubù e Duri A Marsiglia (oggetto di recensione all’interno di questo speciale), recentemente ristampato da Einaudi (Stile Libero – Noir) grazie alla volontà e alla passione di Tommaso De Lorenzis che ne cura peraltro la esauriente introduzione. “Giancarlo Fusco è morto il 17 settembre 1984 al policlinico Gemelli dopo un’operazione al cervello invaso da un tumore che da mesi ormai lo faceva soffrire. Stava per essere sepolto nella fossa comune, senza esequie, ma gli ultimi amici riuscirono a organizzargli un funerale nella “chiesa degli artisti” di Piazza del Popolo. La sorella Franca e la nipote Cinzia hanno voluto ripetere il funerale a Forte dei Marmi, dove è sepolto, in una fossa imprestata dalla famiglia Franceschi, quella della Capannina: un cartoncino indica, precariamente, il suo nome” (Natalia Aspesi).
Bob Sinisi |
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