Dall’Inghilterra del
Red Riding Quartet e di The Damned Utd (di prossima
pubblicazione anche da noi) al Giappone, patria adottiva di David Peace
ormai dal 1994. Lo scrittore britannico risiede attualmente a Tokyo, lì
si è sposato ed ha avuto tre figli. E proprio a Tokyo ha ambientato il
primo tassello di una nuova trilogia sospesa tra storia e cronaca nera,
un ulteriore, disturbante lavoro di scavo nel significato della presenza
del male all’interno dell’animo umano.
Peace si documenta in
modo accurato sui fatti storici, ricostruisce gli ambienti, innesca una
narrazione realistica su base documentaria centrando il difficile
equilibrio fra storia e fantasia. Storia come indagine sull’uomo. Storia
che nel farsi romanzo, nel suo intrecciarsi con l’invenzione rivela modo
in cui lo scrittore conosce la realtà e la affronta di petto
catapultando il lettore in una visione allegorica della Storia.
Agosto del 1945: Showa
(nato Hirohito), il 124° Imperatore annuncia la resa incondizionata ai
colonizzatori americani. Il Giappone è appena uscito con le ossa rotte
dal secondo conflitto mondiale e si trova sotto il controllo del Supreme
Commander for the Allied Powers (SCAP), appoggiato dall’Allied Council
for Japan. Parole di Douglas MacArthur ai giapponesi: “Vi condanno alla
democrazia”. La monarchia resta in piedi solo perche i vincitori
paventano una spinta del paese verso il comunismo a causa di una troppo
repentina instaurazione repubblicana, in realtà l’Imperatore resta al
suo posto privo di di ogni effettivo potere, come puro elemento
ornamentale.
Agosto 1946: Tokyo è
una città polverosa, devastata, un posto da Far West infestato da bande
criminali. Manca la legge, manca tutto e una fetta consistente di
popolazione è in ginocchio, sta morendo di stenti. Muoiono anche delle
ragazze, colpite dalla mano di un inafferrabile assassino (nella realtà,
prima ancora che nella finzione letteraria, il nome del serial killer è
Yoshio Kodaira). È la voce in presa diretta dell’ispettore Minami a
narrarci tutto questo. Un poliziotto spaventato, povero in canna,
dipendente dalle pillole tranquillanti. Un vinto in una nazione di
vinti, di piagati, stravolti e sopravvissuti che si affollano nelle
stazioni, deambulano senza meta al mercato nero, nei quartieri di
fabbriche adattate allo sforzo bellico, di dormitori occupati dagli
operai e poi evacuati: i bombardamenti hanno spazzato via tutto. I
bombardamenti hanno umiliato la speranza.
Topi. Merda. Sudore.
Ignominia.
Viene in mente Nora
Inu, un film di Akira Kurosawa del 1949 noto da noi come Cane
Randagio e vengono in mente anche la faccia e il corpo di Takeshi
Kitano, i suoi sguardi lenti, laterali. Viene in mente, per capirci, il
Kitano di Violent Cop e di Sonatine perché l’ispettore
Minami compie (e fa compiere al lettore) una descentio ad inferos
accompagnata da un processo di deroizzazione chiaro fin
dall’incipit: il poliziotto ha prurito alla pelle; il poliziotto ha
prurito ai capelli e fa sogni che non desidera affatto sognare. Il
poliziotto è colpevole di qualcosa ma sa di non essere solo perché
l’intero mondo che ha intorno è colpevole: “Ricordo quando le bombe sono
cominciate a cadere su Mitaka. Ricordo l’evacuazione, verso casa della
sorella di mia moglie a Kōfu. Ricordo il binario su cui ci siamo
separati. Ricordo il treno su cui se ne sono andati. Ricordo le loro
lacrime, il pensiero che loro sarebbero vissuti e io sarei morto. Poi,
quando sono cominciate a cadere le bombe su Kōfu, quando perfino sua
sorella le ha detto che portava iella, ricordo il loro ritorno a Mitaka.
Ricordo il binario e ricordo le mie lacrime…”
Un maleficio: tutto il
marciume, tutto il dolore che può lasciarsi dietro una guerra, la
lacerazione che disgrega amore e compassione sono in queste pagine di
orrori dilatati sul piano visionario e su quello espressivo. Fa male - e
tanto - leggere David Peace, autore che non risponde agli stereotipi di
una letteratura sobria e rassicurante, non si preoccupa di confortare i
suoi lettori quanto piuttosto di spingerli nella bufera per farli
dialogare con un presente privo d’ossigeno. E lo fa addentrandosi sempre
più in un grado zero di scrittura adeguato all'annichilimento di storia
e personaggi. Peace lavora sul ritmo, battendo sui tasti essenziali e
raggiungendo vette evocative superiori a quelle di altri suoi colleghi.
Non basta: Tokyo anno zero è un libro che aggredisce il lettore
con la stessa energia feroce, densa e tumultuosa de La Pelle di
Curzio Malaparte. Profondamente triste nel suo concentrarsi sulla
perdita del senso della vita come bene primario; perdita sostituita in
toto dalla follia dell’animale uomo.
Nino G. D’Attis Altro su David Peace:
Millenovecento80
Millenovecento83
GB84 |