“I
don't see who I'm trying to be instead of me
But the
key is a question of control...”
Va
bene, allora mi trovo esattamente in prima fila, alla sinistra di Dave, con
una telecamera appesa a una gru che mi passa sulla testa e che ha appena
intercettato la mia handycam digitale scatenando l’ira del bulldog con la
cuffia: «Stop now! Cut. Finish!!!»
Alzo il pollice per fargli capire che ho recepito il messaggio e che come
tutti aspetterò l’uscita del Dvd ufficiale. Il bulldog si rilassa, grugnisce
soddisfatto e torna ad accucciarsi nel suo angolo.
Sono
abbagliato dai riflettori. Sono circondato da palloncini verdi. Sono
nell’occhio del ciclone e vedo mani, braccia, striscioni, sento le urla ma
non ho paura. È il 19 febbraio ’06, seconda data italiana del Tour
dell’Angelo e il Forum di Assago è un unico ruggito, un unico brivido, una
scossa bellissima che mi fa pensare a una cosa sola: insieme ai
New Order, ai Primal Scream, ai
Sonic Youth, ai Massive Attack e ai
Nine Inch Nails, i Depeche Mode regnano
incontrastati tra i più grandi gruppi del pianeta. Non c’è altro
attualmente, a meno che non siate disposti a farvi abbindolare dalle ultime
cosette sparate a salve alla maniera di NEXT BIG THING dalle riviste
musicali più alla moda. Lasciatevelo dire da uno che non sopporta tutto
questo hype intorno a gente come gli Editors o i Franz Ferdinand e che ha
dovuto sorbirsi un’ora dei Bravery prima dell’evento. «From New York City!»
ha urlato due volte il goffo cantante. ‘Stikazzi, come dicono a Gothenburg!
Quattro riff rubati ai Primal Scream, un debito enorme da pagare agli
Stranglers e una voce che ricalca in parti eguali quelle di Robert Smith e
Morrissey. Tornate nella Grande Mela, vermicelli, di corsa all’ufficio di
collocamento a cercarvi un lavoro più adatto alla vostra inettitudine.
Qui è tutto esaurito da mesi. Tre ore di fila al freddo, sotto la pioggia,
confortati da un paio di J&B più qualche mignon di Caffè Borghetti. La
pattuglia di Blackmailmag prevede, oltre al sottoscritto,
Massimo Carloni (fotografie e previsioni
meteo), Francesco Barone (addetto alle pozioni
magiche) e naturalmente la web mistress Rossella, mente strategica della
missione.
Siamo eccitati. Siamo in libera uscita dalle nostre grane quotidiane. Il
baccano in aumento ci rende ancora più euforici, così rifletto che l’ultima
volta che mi sono sentito così bene a un concerto, il merito è stato di un
altra longeva pellaccia: Iggy Pop. Penso anche
al ragazzo della security che ieri sera mi ha placcato mentre provavamo ad
intrufolarci da un cancello laterale per dare un’occhiatina: lui si è
comportato bene, io mi sono comportato bene e anche i poliziotti venuti a
riaccompagnarci fuori sono stati gentili. Hanno capito che non stavamo più
nella pelle. Si sono resi conto che tutte quelle ore al freddo ad aspettare
l’addetta di Ticket One ci avevano dato alla testa e che quando la tipa ci
ha detto serafica: «Avete i biglietti per domani? Ve li daremo domani!» io
non ho potuto fare a meno di gridarle a muso duro che la sua ditta aveva
incassato i nostri soldi da centosessanta giorni o giù di lì.
Va
bene, ehi, è tutto Okappa, in fondo siamo qui per divertirci e poi, se ci
tenete a saperlo, i ragazzi di Basildon, Essex, alloggiano nel nostro stesso
albergo, abbiamo fatto colazione insieme ai loro tecnici e seguito
scrupolosamente la dieta mattutina di questi ultimi: caffè espresso,
cappuccino, croissant, pancake di segale con uvetta e scaglie di cioccolato
fondente, spremuta d’arancia, uova strapazzate, bacon, salsicce, caffè
americano.
In
Padania si affronta la nebbia. In Padania ci si scontra con una temperatura
che può destare qualche lieve preoccupazione. In Padania si bruciano
parecchie calorie.
Alle 21:00 in punto si decolla verso lo spazio profondo. È un Dave Gahan
ripulito dalle brutte storie quello che sta saltando sul palco sulle note di
A Pain that I'm used to. Ripulito, non
ammosciato dall’età, dagli stravizi oramai alle spalle, dalle grandi
quantità di denaro guadagnate dalla band in 25 anni di dischi e concerti.
Dave la rockstar generosa con il suo pubblico. Dave che vuole ancora bene ai
suoi amici/soci Martin Gore e Andrew Fletcher. Ricambiato, non è una finta:
se c’è un pieno di adrenalina da riversare sulle anime che hanno pagato il
biglietto, sappiate che il serbatoio è stato rifornito da tre vecchi amici
che si divertono ancora a suonare insieme.
Sono tornati perché avevano ancora qualcosa da dire. La prova schiacciante è
Playing the angel, un album all’altezza
della loro storia, il disco che ha trovato più o meno ovunque consensi
favorevoli e che racchiude gemme come Precious (Gesù, questi versi mi
fanno stare male:
“Things get damaged / things get broken / I
thought we'd manage / but words left unspoken / left us so brittle there was
so little left to give”),
John the revelator, Suffer well (bellissimo il videoclip)
e Lilian. Lontani i giorni da sbarbatelli con le tastierine
giocattolo. Lontana anche la prima crisi importante datata 1981, dopo
l’abbandono del co-fondatore Vince Clarke
proprio a ridosso dei primi successi con il singolo Just can’t get enough
e l’album di debutto Speak & Spell. Lontani i collassi
cardiocircolatori, i tentativi di suicidio, la coca e l’ero, i lati oscuri
di Los Angeles e Pasadena.
Dave è in forma e a quanto pare ha rinunciato alla tentazione di
trasformarsi in un vampiro. Il terzetto (coadiuvato da batterista e
tastierista aggiunti) è al massimo e pesta sull’acceleratore alternando
classici e nuove composizioni mentre alle loro spalle scorrono i maestosi
interventi visuali di Anton Corbijn. È un
party
spettacolare. È un’orgia di suoni e immagini. È un rito di fede e devozione
che raggiunge il massimo splendore con Walking in
my shoes, Personal Jesus ed Enjoy the silence.
Pensateci un attimo: i testi dei Depeche Mode parlano di cose reali e, per
come la vedo io, Martin Gore (cuffietta e
alette stravaganti a parte) è un songwriter con una sensibilità pari a
quella di Trent Reznor, un uomo che riesce a parlare di sofferenza e
cicatrici dell’anima senza risultare banale.
Il
Barone ha pianto sulle note di Enjoy the silence, Massimo si è
commosso con Everything counts e l’immortale A Question of lust,
io con Walking in my shoes e Policy of truth, la coriacea
Rossella praticamente con tutto, finanche con la panzetta di Gahan (che «NON
è una panzetta!»). E mi sono sentito felice, ma anche triste, spossato e
abbandonato come un animale post coitum quando lo show è finito, ci hanno
fatto sloggiare in fretta perché c’era da smontare il palco, caricare ogni
cosa sui Tir diretti verso la prossima tappa (a Parigi, se non ricordo
male).
Mezzanotte con una Pall Mall San Francisco tra le labbra: terminata la
scorta di birra del Barone, sono uscito di nuovo dall’albergo in cerca di un
altro collo da succhiare. Massimo, benché astemio, mi è venuto appresso
dicendomi: «Offro io questo giro...aaahhh, questa notte la ricorderò per
sempre!»
Sacrosanto.
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