DAVID PEACE: Millenovecento80 (Marco Tropea Editore, pp. 380, € 16,00; traduzione di Marco Pensante) |
“A cloud hangs over me, marks my every move.” (Joy Division, Twenty four hours, 1980)
Un arduo, scrupoloso lavoro di scavo sulle proprie ossessioni. Incubi del vissuto riemersi in forma di parole che riempiono pagine e pagine: ecco cosa porta a sostenere che i romanzi di David Peace assediano il lettore. Ecco cosa ha spinto molti critici ad accostarli alle opere di Derek Raymond e di James Ellroy. Letteratura hard boiled impastata con le vicende reali. Polizieschi senza anestesia che lasciano cicatrici e non possono pertanto essere in alcun modo definiti ‘d’evasionè. Sono tre quelli finora pubblicati in Italia, tutti legati al ciclo del ‘Red Riding Quartet’: 1974 (Meridiano Zero, 2001); 1977 (Meridiano Zero, 2003) e 1980 (Tropea, 2004). Restano fuori 1983, in corso di traduzione e GB84, incentrato sulla rivolta dei minatori inglesi del biennio 1984/85 e intorno ai disastri sociali procurati dalla stagione politica conservatrice di Margaret Thatcher. Con il ‘Red Riding Quartet’, Peace racconta attraverso uno stile iperrealista l’altra Inghilterra, la terra che i Beatles non avrebbero mai potuto cantare: violenta, intollerante, corrotta, emblema di quel “No future!” urlato dai Sex Pistols. Perché: "Il noir è l'espressione più politica della narrativa: descrive esattamente e con precisione l'efferatezza di un crimine fortemente legato ad un dato momento storico e geografico preciso." Perché: "I crimini commessi nell’epoca in cui viviamo contribuiscono a definirci e, in fondo, a dannarci”. Yorkshire occidentale, tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta: Peace oggi vive in Giappone ma è nato e cresciuto lì, ad Ossett, nel periodo in cui lo Squartatore dello Yorkshire seminava il terrore tra la gente. Aveva dieci anni e abitava a cinque miglia dal luogo del delitto quando trovarono il cadavere di Jayne McDonald, una delle vittime. Leeds, 26 giugno 1977: “Ero ossessionato dal desiderio di risolvere il caso. Arrivai al punto di credere che mio padre fosse lo squartatore”. In Millenovecento80 il paesaggio è gelido, non solo per via di un inverno particolarmente impietoso: ci sono gli attentati dell’IRA, gli scioperi della fame nei penitenziari, la disoccupazione oltre i livelli di guardia, il terrore che assale le donne. Peter Hunter, vicecapo della polizia di Manchester, riceve l’incarico di costituire una squadra speciale antimostro. Impresa doppiamente ardua, dal momento che, oltre ad una lunga scia di sangue, l’investigatore dovrà fare i conti con una matassa di giochi sporchi all’interno del sistema. Proprio come i cronisti di nera Ed Dunford e Jack Whitehead e il sergente Bob Fraser, ovvero i tre infelici protagonisti dei tasselli precedenti. Hunter è solo. Abita in una casa unifamiliare con garage per due posti auto, dorme poco e male, non ha veri amici, sua moglie Joan non riesce a dargli un figlio. Primo attore triste tra montagne di fascicoli, fotografie, nastri audio, notiziari radio che scandiscono a notte fonda lo scorrere di un tempo saturo di orrori. Personaggio che, a dispetto del cognome, palesa fin dalle prime pagine le stimmate della preda. La sua voce è ripetutamente interrotta, soffocata da cut-ups, frammenti di flussi di coscienza delle vittime e del carnefice. Cose come: “incastonata una bottiglia rotta di una bibita nel petto ancora con il tappo a vite tagli che non smetteranno mai di sanguinare lividi che non guariranno mai pensieri perduti e pensieri trovati…” Un mantra psicotico che viene dall’inferno, affilato e brutale nel riferirci i dettagli più macabri, l’affievolirsi delle speranze, i deliri del serial killer. La lingua di cui si serve Peace si poggia su una scansione sincopata, morbosamente ipnotica, simile al suono del basso di Peter Hook nei Joy Division. Frasi che somigliano a oggetti scagliati con rabbia e paura verso il Male assoluto e tutte le sue rappresentazioni terrene: “Controllo l’orologio, abbasso il volume della radio, prendo il telefono dal letto e ascolto il segnale della linea, sincronizzo il mio orologio sull’ora esatta, stacco di nuovo il telefono, alzo il volume della radio e cammino per la stanza nera fino all’angolo nero…” Sempre la notte, la pioggia, il ghiaccio nelle ossa, nello stomaco, i ricordi che più sono cattivi, più si fissano in testa per riportarci all’idea che dentro la follia altrui c’è la nostra follia, la nostra dose di disturbi. Al pari di Ellroy, anche Peace racconta un tempo e un luogo preciso, si serve della scrittura come scanner del reale e di personaggi che annaspano nel fango in cerca di redenzione. L’ironia, quando c’è, è un elemento ridotto ai minimi termini che non produce effetti lenitivi, non ripara il lettore dal senso di catastrofe prodotto dagli accadimenti. Più forte è l’immagine di uno scenario che si manifesta dietro l'angolo e di cui possiamo sentire tutto il tanfo della sua miseria morale. Il vuoto che ne risulta è spiazzante, l’happy end non dimora qui.
Nino G. D’Attis |
|