«Lo scrittore di “Science
Fiction” non intravede semplici possibilità, bensì possibilità bizzarre. Non
un banale “e se?”, bensì un “Oddio,
e se?” in preda all’isteria e alla frenesia.»
P.K.Dick
Philip Kindred Dick è uno che è
morto da sfigato, così come è vissuto, tirando le cuoia pochi giorni prima
dell’uscita di Blade Runner,
il film che gli avrebbe dato la celebrità planetaria e un bel po’ di grana
sonante. Invece se n’è andato, nel marzo del 1982, alla misera età di 53
anni, probabilmente perché aveva vissuto troppo in fretta.
Nel 1953 scrisse un racconto:
I Marziani arrivano a frotte.
Iniziava così:
«Ted Barnes tornò a casa scuro in volto e
tremante. Gettò il cappotto e il giornale sulla poltrona. “Un altro sciame”,
bofonchiò. “Un intero sciame!" Era proprio sotto il tetto di Johnson. Stavano
cercando di farlo scendere con una specie di lungo palo...»
ovvero le prime righe di Mr.
Dick che mi sono capitate sotto gli occhi (quarto liceo, terzultimo banco,
brufoli e broncio adolescenziale). Ho pensato: “uhm”.
"Lena prese il cappotto e lo
ripose nello spogliatoio. «Sono proprio contenta che tu sia venuto subito a
casa».
«Mi
prende la tremarella quando ne vedo uno».
Ted si lasciò cadere sul divano, frugandosi nelle tasche alla ricerca di una
sigaretta. «Lo
giuro su Dio, proprio non lo sopporto».
Si accese la sigaretta,
soffiando tutto in torno fumo grigio. Le sue mani cominciavano a calmarsi.
Si asciugò il sudore del labbro superiore e strinse il nodo della cravatta.
«Cosa
c’è per cena?»
«Prosciutto».
Lena si chinò su di lui per baciarlo.
«Come
mai? è qualche ricorrenza?»
«No».
Lena si diresse verso la porta della cucina.
«è
quel prosciutto olandese in scatola che ci ha regalato tua madre. Ho pensato
che era ora di aprirla».
Ted la guardò sparire in cucina, snella e
attraente nel suo grembiule chiaro di cotone stampato. Sospirò e si
abbandonò contro lo schienale, tentando di rilassarsi. Il soggiorno
tranquillo, Lena in cucina, il televisore acceso in un angolo, tutto ciò lo
faceva sentire un po’ meglio."
Poche righe per una breve introduzione di un
piccolo racconto. Poche parole straordinariamente ricche di cenni su tutto
ciò che è il suo mosaico narrativo.
È il ’53 e Dick,
poco più che ventenne, è uno scrittore che pubblica da appena un anno, ma
tutti gli elementi chiave del suo universo instabile e conflittuale sono già
bozze pronte ad essere affilate: qui si delinea da un lato la tranquillità
del focolaio domestico, dall’altra la terribile minaccia, ironica e
surreale, dei lumaconi marziani che si appollaiano sui tetti e sugli alberi
della tranquilla provincia americana. Molti dei suoi scritti partono, o si
muovono, nell’interno dell’ambiente famigliare “middle class”. Tranquillo,
convenzionale, rassicurante. Fuori: l’imprevedibile.
Un’opposizione interno/esterno che ha una
doppia valenza: da un lato la personale diatriba tra la “normale” vita
matrimoniale (ci proverà cinque volte) e la squilibrata ed estrema esistenza
da scapolo squattrinato, dall’altro la dialettica realtà illusoria (quella
in cui ci si “illude” di essere) /realtà sommersa.
Così Dick parla della propria vita coniugale:
"Durante ogni matrimonio ero il borghese che
porta a casa lo stipendio, e quando il matrimonio falliva (grazie a Dio) via
nella fogna di una vita semi illegale."
Spesso la famiglia, l’amore e i sentimenti
sono tra i tentativi affannati con cui i suoi personaggi (l’umanità intera)
tentano di conferire un ordine e una struttura al caos dell’esistenza.
Nient’altro che bolle di vetro pronte a frantumarsi sotto il peso di un
universo a scatole cinesi, capace di spazzare via la più banale delle
certezze, a partire dalla personale identità di ognuno. Incubi in cui la
realtà appare come un corpo senza pelle, una giostra da luna park dalla
quale l’immagine del mondo si distende in un magma di significati fuori
fuoco.
Statene certi, a chiunque un bel giorno può
capitare di scoprire di essere stato costruito in fabbrica. Lo scrittore
Robert Anton Wilson, autore della
Trilogia degli Illuminati, in un’intervista ha confessato:
"Nel 1994 è apparsa su Internet la notizia
della mia morte. Nonostante abbia fatto di tutto per smentirlo, c’è chi
continua ancora a sostenere il contrario. Ora, se non avessi letto Philip
Dick, sarei sicuro di non esserlo, ma poiché ho letto i suoi libri, so che
potrei essere un androide che pensa di essere Robert Anton Wilson. Così non
sono mai sicuro di essere Robert Anton Wilson oppure un androide programmato
per pensare, parlare e scrivere come Robert Anton Wilson."
Non visioni di un folle, ma parole
splendidamente consapevoli! Dick ci ha insegnato un sano e sereno distacco
dalle convinzioni più ovvie, oltre che da noi stessi.
Ancora, nelle prime righe del racconto un
elemento chiave salta agli occhi: al centro della sua “fantascienza” ci sono
sempre uomini comuni, il più delle volte autentici perdenti, a differenza
della maggior parte della produzione del genere a lui precedente o
contemporanea. Niente astronauti, o super uomini, o straordinari esseri
alieni. Persone qualunque la cui esistenza viene capovolta dall’inondazione
di eventi inimmaginabili. Perdenti (naturalmente solo allo sguardo della
società) come lo stesso Dick, costretto a mangiare cibo per cani per
sopravvivere, paranoico, drogato, misantropo, inseguito dalla mala per i
suoi debiti da tossico e protagonista di matrimoni disastrosi. Ma allo
stesso tempo incredibilmente affettuoso, sensibile, ironico e amato da chi
ha avuto la fortuna di conoscerlo, comprese le sue mogli, anche se fuggite a
gambe levate, continuamente travasate all’interno delle sue storie: tra le
righe citate compare la figura immaginaria di Lena (in questo caso si tratta
di una semplice “comparsa”
femminile), «snella
e attraente nel suo grembiule chiaro di cotone stampato».
In Confessioni di un artista di merda
(1975), uno dei suoi romanzi mainstream, così il personaggio
Charley osserva sua moglie presa dalle faccende domestiche:
"Aveva una fascia legata sulla vita con un
nodo, indossava pantaloni stretti e sandali, e i capelli erano spettinati.
Dio, com’era graziosa, pensò lui. Quel suo stupendo modo di camminare […]
Mentre apriva le borse della spesa lui le guardò le gambe, rivedendo con gli
occhi della mente fino a che punto riusciva ad aprirle, la mattina, quando
faceva ginnastica. […] Che muscoli robusti aveva nelle gambe, pensò.
Abbastanza da spezzare un uomo. Da dividerlo in due, da schiacciargli il
sesso."
Saltando a
In Terra Ostile del 1958
(altro suo tentativo di fuga dalla fantascienza), si legge:
"Aveva i fianchi stretti e il ventre, sotto di
lui, gli parve soffice […] Aveva un corpo perfetto sotto ogni punto di
vista, liscio e snello. Si era tenuta in forma, come un’atleta o una
danzatrice. Proprio quello che lui aveva sempre desiderato."
Fisicamente, le donne dell’immaginario
dickiano seguono spesso questa linea descrittiva. Da un punto di vista
tematico, invece, si indirizzano più o meno in tre ruoli: c’è la moglie
rassicurante e comprensiva (soprattutto nei personaggi più defilati, come
nel caso del “raccontino” Arrivano i
marziani), oppure la sostenitrice appassionata (la Rony Fugate de
Le tre stimmate di Palmer Eldritch).
Ma la presenza più marcante è soprattutto quella della donna forte,
castrante, autoritaria, dominatrice nel suo gioco di ambiguità,
«da spezzare un uomo, da dividerlo in due»
(Confessioni…),
Cosi Dick parla dell’argomento:
"Ho la tendenza a scrivere sempre dello stesso
tipo di donna, una donna molto bella e crudele. Il protagonista si innamora
di lei e lei lo distrugge in qualche modo orribile […] Leggo un mio libro e
mi sembra che vi sia la descrizione di una delle mie mogli, sino alla
lunghezza dei capelli, al modo di parlare, di muoversi, la conformazione
fisica, il tipo di corpo. A un certo punto mi dico che ho usato davvero
molti elementi di mia moglie in questo libro, e poi scopro che l’ho scritto
cinque anni prima di incontrarla. E ciò è davvero spaventoso."
Per chiudere con una chicca, nelle poche righe citate c’è anche un
particolare onnipresente: la sigaretta («Si
accese la sigaretta, soffiando tutto intorno fumo grigio»).
Nei suoi libri non si fa che fumare, continuamente, come da vecchia
tradizione hollywoodiana. Eppure Dick non ha mai fumato in vita sua, almeno
a quanto dice una delle sue più intime amiche, Miriam Lloyd.
Quello che sembra non è quello che è. Mai!
Questa la sua lezione numero uno.
Quindi lasciate perdere il cinema dickiano di
Scott (grande) o Verhoeven (puah!) o Spielberg (mmm). Sembra Dick, ma non lo
è, come è naturale che sia. Impossibile resistere a non citare Carlo Pagetti
nell’introduzione della prima edizione del 1973 di
Noi marziani:
«Per Dick la realtà si configura come uno specchio
magico, che riflette immagini meravigliose, nel momento in cui, colpito da
un oggetto che potremmo definire il “caso” o il “destino” (o la scienza?),
esso si sbriciola in mille frantumi.»
Andate in libreria, o in biblioteca, o fatevelo prestare. Ma leggete. Magari
iniziando dagli splendidi primi racconti degli anni cinquanta, quelli che
lui stesso definiva “mediocri”
(«mancavo,
per ignoranza, di molte abilità essenziali per scrivere »).
Non fidatevi.
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