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Regia:
Steven Spielberg |
Sceneggiatura:
Scott Frank e Jon Cohen, da un racconto di Philip K. Dick |
Fotografia:
Janusz Kaminsky |
Montaggio:
Michael Kahn |
Scenografia:
Alex McDowell |
Costumi:
Deborah Lynn Scott |
Musica:
John
Williams
|
Prodotto da:
Jan De Bont, Bonnie Curtis, Gerald R.Molen, Walter F. Parkes |
Durata:
145' |
Distribuzione:
20th Century Fox |
Sito ufficiale:
www.minorityreportmovie.com |
Prima
Kubrick, ora Dick. Due geniali defunti illustri con cui il ‘re mida’ di
Hollywood ha avuto il coraggio di confrontarsi. E per poco non gli è andata
bene: in fondo Spielberg è senza dubbio uno dei più grandi talenti ‘visivi’
del cinema. Però Lui non osa, e se uno con il suo potere è solo capace di
finte sperimentazioni pop, a voi le conclusioni.
Dai
tempi di Blade Runner (di cui si recuperano egregiamente le atmosfere
noir) non
si vedeva una fantascienza mainstream così alta (Matrix escluso). I
primi minuti sono davvero grandi, e per due terzi del percorso sembra che il
miracolo sia avvenuto: il pessimismo e l'inquietudine di
P. K. Dick pare
abbiano contagiato anche il caramelloso Steven, che riesce a coniugare
azione ed effetti ‘Industrial Light & Magic’ ad aromi concettuosi sia sul
fronte filosofico che politico, distillati egregiamente dalla splendida e
gelida fotografia di Janusz Kaminski.
Della
breve storia di Dick (ora rieditata dalla Fanucci assieme ad altri suoi racconti
trasposti cinematograficamente) rimane solo il plot iniziale. Da qui il team
lavora sapientemente nella ricreazione di un nuovo universo (a cominciare
dal protagonista: ad un poliziotto quasi calvo e prossimo alla pensione si
sotituisce nella pellicola uno sbirro di nome Tom Cruise, accecato dal
dolore della perdita del figlio e dedito ad una sana ed equilibrata
tossicodipendenza), spingendo Minority Report vicino alla vertigine
del capolavoro: c'è l'ironia, la parodia, l'impegno, ci sono dialoghi
essenziali e serrati, buoni personaggi, ritmo, fantastiche invenzioni
visive, grande regia, un lavoro intelligente sui particolari futuristici; il
tutto rispettando l'acuta e poetica lucidità visionaria del grande
scrittore.
Tornano alla mente le rare belle opere indirettamente "dickiane" degli
ultimi anni, ovvero L'Esercito delle dodici scimmie (Gilliam) ed
Existenz
(Cronenberg). Il paragone però non regge fino alla fine.
Come nel precedente
A.I. il regista non si ferma quando è il momento (pensate se tutto
fosse finito con il piccolo bambino-robot sommerso per l'eternità davanti
alla fata turchina negli abissi di New York), dando piede libero ad un
secondo finale ampolloso, banalmente rassicurante, retorico e da mal di
testa: in una parola riemerge prepotentemente la famigerata ‘filosofia’
spielbergiana, asfissiante nel suo voler spiegare troppo con una micidiale
grammatica di sorprese scontate, finalizzata esclusivamente a lasciare un
malsano retrogusto di pacata serenità.
Sarà mancanza di coraggio, sarà la sua mentalità grettamente americana, sarà
la lontananza dalle tematiche affrontate. Chi lo sa? E' una tortura da
accettare, purtroppo.
Ricordate Duel (suo grande, primissimo film)? Cosa sarebbe successo
se a quel finale il regista avesse aggiunto tre bobine di spiegazioni sul
movente e l'identità del miterioso camionista persecutore?
Antonello Schioppa
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