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MINORITY REPORT (USA 2002) (speciale PKD) |
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Prima Kubrick, ora Dick. Due geniali defunti illustri con cui il ‘re mida’ di Hollywood ha avuto il coraggio di confrontarsi. E per poco non gli è andata bene: in fondo Spielberg è senza dubbio uno dei più grandi talenti ‘visivi’ del cinema. Però Lui non osa, e se uno con il suo potere è solo capace di finte sperimentazioni pop, a voi le conclusioni. Dai tempi di Blade Runner (di cui si recuperano egregiamente le atmosfere noir) non si vedeva una fantascienza mainstream così alta (Matrix escluso). I primi minuti sono davvero grandi, e per due terzi del percorso sembra che il miracolo sia avvenuto: il pessimismo e l'inquietudine di P. K. Dick pare abbiano contagiato anche il caramelloso Steven, che riesce a coniugare azione ed effetti ‘Industrial Light & Magic’ ad aromi concettuosi sia sul fronte filosofico che politico, distillati egregiamente dalla splendida e gelida fotografia di Janusz Kaminski. Della breve storia di Dick (ora rieditata dalla Fanucci assieme ad altri suoi racconti trasposti cinematograficamente) rimane solo il plot iniziale. Da qui il team lavora sapientemente nella ricreazione di un nuovo universo (a cominciare dal protagonista: ad un poliziotto quasi calvo e prossimo alla pensione si sotituisce nella pellicola uno sbirro di nome Tom Cruise, accecato dal dolore della perdita del figlio e dedito ad una sana ed equilibrata tossicodipendenza), spingendo Minority Report vicino alla vertigine del capolavoro: c'è l'ironia, la parodia, l'impegno, ci sono dialoghi essenziali e serrati, buoni personaggi, ritmo, fantastiche invenzioni visive, grande regia, un lavoro intelligente sui particolari futuristici; il tutto rispettando l'acuta e poetica lucidità visionaria del grande scrittore. Tornano alla mente le rare belle opere indirettamente "dickiane" degli ultimi anni, ovvero L'Esercito delle dodici scimmie (Gilliam) ed Existenz (Cronenberg). Il paragone però non regge fino alla fine. Come nel precedente A.I. il regista non si ferma quando è il momento (pensate se tutto fosse finito con il piccolo bambino-robot sommerso per l'eternità davanti alla fata turchina negli abissi di New York), dando piede libero ad un secondo finale ampolloso, banalmente rassicurante, retorico e da mal di testa: in una parola riemerge prepotentemente la famigerata ‘filosofia’ spielbergiana, asfissiante nel suo voler spiegare troppo con una micidiale grammatica di sorprese scontate, finalizzata esclusivamente a lasciare un malsano retrogusto di pacata serenità. Sarà mancanza di coraggio, sarà la sua mentalità grettamente americana, sarà la lontananza dalle tematiche affrontate. Chi lo sa? E' una tortura da accettare, purtroppo. Ricordate Duel (suo grande, primissimo film)? Cosa sarebbe successo se a quel finale il regista avesse aggiunto tre bobine di spiegazioni sul movente e l'identità del miterioso camionista persecutore? Antonello Schioppa |