Home | back | Antonio Pileggi | Chris Cunningham | Franco Galluzzi Livera | La grande stagione acida | Nise No: Rien | Fura Dels Baus | Terry Richardson | Sviluppi non premeditati | Vanessa Beecroft | Archivio Arte | Cerca sul sito |
CONVERSAZIONE CON FRANCO GALLUZZI LIVERA di Nino G. D’Attis Visita la gallery |
Il mio primo incontro con Franco Galluzzi Livera risale all’alba degli anni ’90 ed è legato ad una bottiglia di vino trafugata dal buffet di un party organizzato da gente molto più esclusiva di noi due. Una bottiglia per accendere la miccia di un’amicizia che dura tuttora, cementata da diverse collaborazioni e che mi ha permesso di assistere da vicino a diverse tappe del suo percorso artistico. Franco è un ‘operatore dell’immaginè e nel suo curriculum vanta mostre personali, partecipazioni a collettive, collaborazioni con artisti di varia estrazione (musicisti, videomakers, pittori). È stato co-fondatore del gruppo concettuale Interzone, attualmente opera anche sotto la sigla Bluefactory alternando fotografia e videoarte. Vive a San Pietro Vernotico (Br), il suo contatto è fglivera@libero.it (www.primopianogallery.com)************
Partiamo dal tuo ultimo lavoro, Lumpenproletariat, un video girato in un deposito di rottami... È nato da un moto di rabbia. Ho visto in una libreria di Brindisi che si chiama Camera a Sud, il progetto realizzato dal prof. Vincenzo Camerino dell’Università di Lecce. Si trattava di una serie di corti girati nel Salento da alcuni autori pugliesi e la cosa che sostanzialmente mi ha irritato di questi giovani autori è stato il fatto che dovessero necessariamente narrare una storia, quando in realtà le immagini possono essere di per sé narrazione, senza avere per forza un’immagine che viene applicata sulla sceneggiatura. Allora, essendo io salentino, essendo io la salentinità, ho fatto questo lavoro girato qui ma che potrebbe essere stato realizzato in qualsiasi altra parte del mondo: riprese di ammassi industriali che potrebbero arrivare da Brindisi, da Tokyo, da New York...ho fatto questo creando una non-narrazione. Nel video c’è il rumore ossessivo del vento che produce uno stato di angoscia da superare: estraniarsi dal rumore per entrare nell’immagine.
Un muro... Sì. Il fatto poi che abbiamo contrastato le immagini fino a saturarle, fino quasi a creare una non-visione, o una visione poco chiara, dettagliata dell’immagine è anche una sorta di polemica verso questo tipo di cinematografia narrativa. A differenza di quanto avviene nella mia produzione fotografica, nel mio lavoro con l’immagine fissa, Lumpenproletariat è un lavoro di attrito, di non-armonia.
Nelle tue foto c’è una ricerca di maggiore chiarezza, rispetto a ciò che fai con i video. Assolutamente sì. Prendi i ritratti, ad esempio. La ritrattistica si ricollega idealmente al senso caravaggesco del ritratto. Lui è stato il primo a creare delle luci incidenti sui personaggi, a creare la plasticità fotografica quattrocento anni prima che si realizzasse tecnicamente la fotografia intesa come scrittura della luce.
Quindi anche cinema... Certo. Infatti il cinema dei primordi, nel quale la parte commerciale non era il fulcro del film, dove il successo non condizionava l’autore, è un cinema di capolavori. Secondo me, l’ultimo Tsukamoto rientra in questo filone. Ha fatto A Snake of june a sue spese, a suo rischio, senza pensare ad altro.
Tu non sei un cineasta, eppure, vedendo il tuo ultimo lavoro non ho potuto fare a meno di gustarlo come un meraviglioso film di fantascienza purtroppo in copia unica, visto che si tratta pur sempre di un’opera d’arte estranea all’idea della del multiplo. Mi è sembrato addirittura un ideale prequel di Alien: zero sceneggiatura, zero personaggi e tuttavia un mistero, una galassia, un pianeta sconosciuto con la macchina da presa che esplora ammassi di rottami. Mi fa piacere che tu l’abbia visto così. Mancava la presenza umana, ma tutto ciò che veniva catturato dalle immagini era comunque presenza umana in quanto consumato al limite del detrito dall’uomo. I rottami delle automobili, ciò che è passato sotto la pressa, ha comunque avuto vita all’interno, ci sono state persone che hanno viaggiato dentro quelle automobili.
Come cambia il tuo approccio all’immagine fissa rispetto all’attenzione nei confronti dell’immagine in movimento? È come se lavorassi su due aspetti complementari della mia personalità. Alla fine, ciò che faccio con le immagini in movimento è anche una reazione critica alla troppa immagine in movimento che c’è in giro. Penso a un certo tipo di cinematografia, alla pubblicità, a tutto quello che comunque irrita l’animo. I miei lavori video sono essenzialmente minimalisti, fatti con poco, anzi, con niente. Il contrario avviene con l’immagine ferma: lì sei tu che stabilisci i tempi, sei tu che decidi quanto vuoi restare sull’immagine ferma. È il terreno in cui mi sembra di ritrovare una continuità storico-estetica, di toccare il classico, un’immagine che è una sorta di rifacimento botticelliano. È la ricerca di un’armonia che sia oltre la visione.
Che rapporto hai con la narrazione, con l’atto di narrare? Parto sempre, soprattutto negli ultimi lavori strutturati come un ciclo di immagini che creano un percorso, da un itinerario concettuale. Questo crea già la narrazione, intesa naturalmente come forma poetica, non come forma romanzata. Lavoro sulla mia esperienza, su ciò che mi circonda, perché diversamente creerei un falso.
Hai cominciato a fare le tue prime cose in video con il gruppo Interzone realizzando lavori caratterizzati da un montaggio frenetico. Ora mi pare che tu sia approdato a un montaggio più tranquillo... Diciamo anzitutto che dopo la scomparsa di mio padre e un momento di apatia totale mi sono riappropriato della mia vita e anche della mia vita artistica. Dentro Interzone era soprattutto Antonio (Galluzzi, N.d.r.) a portare avanti il progetto mentre io ero un realizzatore e in minima parte anche un collaboratore concettuale. Solo l’ultimo lavoro realizzato insieme, Gelidi roghi, lo sento mio al 100%. Ma non è solo questo: il fatto che nella mia ultima produzione abbia recuperato immagini fatte tra la fine degli anni ’80 e i primi dei ’90, mi ha dato la possibilità di ritrovare me stesso. Questi dieci anni sono stati di maturazione estetica e tecnica. Interzone mi ha aiutato molto a capire le letture che bisogna fare sul lavoro, ora però sono io a decidere quale immagine usare, cosa scartare, come montare il film, etc.
Dentro Interzone, tuttavia, l’elemento politico era sicuramente più scoperto, rispetto al tuo lavoro ‘solista’. Senti in qualche modo una continuità con l’esperienza del gruppo? Direi che è cambiato anche il clima, rispetto agli anni ’90. L’arte che si sta facendo in questi anni è diversa rispetto a quella di dieci anni fa, c’è una consapevolezza diversa. C’è, tanto per fare un esempio, un recupero forte della body art.
Negli anni ’90, con Interzone c’era insomma l’urgenza di sparare pallottole corazzate mentre adesso mi pare che nel tuo lavoro predomini l’elemento umanistico... Sì, io credo che in questo momento si possa fare soltanto un tipo di cultura umanistica.
Prova a farmi una sintesi del tuo percorso come artista. Presentando il tuo video al pubblico del ‘Fondo Verri’ di Lecce hai detto: «Ho quarant’anni», punto. Duchamp diceva che se a quarant’anni non riesci a rinnovare te stesso, alla fine diventi una parodia di te stesso, diventi un impiegato dell’arte. Ho cominciato a fotografare nel 1984, da autodidatta. L’amicizia con persone che avevano una forte personalità nell’arte, l’Accademia, un soggiorno a Roma e collaborazioni con vari artisti, poi il ciclo dei lavori onirici, delle multivisioni, anche quella una sfida all’immagine nitida, costruita in maniera lineare.
Cosa hai assorbito dal cinema, dalla letteratura durante i tuoi dieci anni di maturazione? Il primo nome in assoluto che sento di dover citare è quello di Pasolini, sia a livello poetico che estetico. Pasolini ci ha insegnato molto su cosa significhi fare del cinema, creare un’immagine comunque legata alla storicità dell’arte italiana. Poi, sicuramente Carmelo Bene perché quel che ha fatto rimane l’Opera assoluta in questo momento. Ancora, Mario Martone e Ciprì e Maresco. Ma il più grande terrorista italiano è stato Pasolini: hanno fatto delle riunioni in Parlamento per poter vietare i suoi film e questo è veramente un atto di grande terrorismo, inteso in senso ovviamente positivo. Poi c’è stato il terrorismo deleterio, quello che ci ha distrutto tutti, che alla fine ha sconfitto i sogni...
E che ha dato buone ragioni in più a chi voleva affossare la nostra società fornendo degli alibi per cambiare alcune leggi... Vero, ancora oggi subiamo restrizioni attuate alla fine degli anni ’70 per le Brigate Rosse. Se vai in un albergo senza documenti non ti danno una stanza perché devi essere registrato e reso immediatamente visibile in quel luogo.
In un intervento di Wu Ming 1 sul caso Battisti, si ricordava come dal rapimento Moro in avanti sia stato attuato un sistema di violazione della privacy senza passare per l’autorizzazione del magistrato, dalle intercettazioni telefoniche a quelle postali...all’epoca non c’era ancora Internet ma oggi la cosa viene applicata anche alla Rete. In questo momento siamo fortemente sotto regime. Il fatto stesso che tu non possa andartene in giro senza documenti la dice lunga. La carta d’identità è un documento tipicamente italiano, introdotto durante il brigantaggio per poter identificare la persona. Oggi nessuno ci fa più caso perché è diventata una cosa normale ma c’è una paranoia crescente al punto che in alcuni paesini del Nord Italia, nel varesotto, nel bergamasco, le amministrazioni comunali hanno collocato un circuito di telecamere che controllano gli angoli delle strade. La gente è controllata ma si sente sicura di questo controllo.
Stiamo entrando nel territorio di William Burroughs, che è anche uno dei tuoi autori preferiti... Già...a proposito, 29/56 il lavoro che ho realizzato appositamente per Blackmailmag (di prossima pubblicazione, N.d.r.), è dedicato a Thomas Pynchon ma nel momento in cui strappo il libro e lo ricompongo in varie parti, il riferimento è anche ai cut-ups di Burroughs.
Pynchon e Burroughs hanno tracciato una poetica della paranoia e molta dell’arte emersa negli ultimi vent’anni entra nel merito di questo discorso. Torniamo a Lumpenproletariat: la merce è strumento di controllo... Assolutamente sì. Qualsiasi cosa facciamo crea delle tracce che a loro volta servono al controllo: usare il bancomat è esattamente questo. Vogliono introdurre con grande entusiasmo la carta d’identità elettronica con tutti i dati della persona, per me è allucinante. Orwell ci è arrivato molti anni fa, ora tocca a noi.
Vogliono arrivare anche all’identificazione attraverso la retina oculare, come aveva previsto Philip K. Dick nei suoi romanzi... Sì, il bancomat con il controllo della retina, senza codice numerico. Penso che questi scrittori non abbiano fatto della fantascienza ma abbiano semplicemente avuto una visione avveniristica degli eventi, della modernità.
Quale è il tuo rapporto con l’ironia? C’è una campagna di diffamazione verso l’ironia, in questo momento. Sono contrario al sarcasmo ma non all’ironia che è qualcosa che ti alleggerisce o alleggerisce il discorso.
So che ti hanno appena rifiutato un lavoro in Germania, ne vuoi parlare? Sì, al ‘Goethe Institut’ di Monaco. La cosa mi ha fatto molto piacere, nonostante il mio contatto in Germania sia rimasto deluso. Era un lavoro troppo provocatorio rispetto a una tradizione "borghese" della loro cultura. Ma un rifiuto è sempre un fatto positivo: nel momento in cui ti rifiutano per una ragione forte come questa, significa che il tuo lavoro sta funzionando, che stai facendo qualcosa d’importante.
Ok. vuoi aggiungere ancora qualcosa? Sì: ho quarant’anni (risate).
Grazie. |
|