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Amici, solo per questo numero ho deciso di concedere a me stesso e a chi vorra’ leggermi una scrittura più seriosa, concettosa e definita di quella solitamente usata nei consueti appuntamenti del Black Box.

Perche?

Perchè l’occasione dell’uscita di "Mulholland Drive" di David Lynch merita tutti gli onori. Ed anche per questo, in accordo col film, questo mese abbiamo ribattezzato "BLUE BOX" lo spazio da me medesimo (disordinatamente) gestito. Ma se c’è del GRANDE cinema come faccio a non recensirlo?

Bene, bene,

sembra che il meccanismo del nostro amico giri sempre più preciso e più complesso. Dopo il break apparentemente molto lineare di Straight Story, qui Lynch affonda un altro colpo al corpo-cinema, ancor più profondo e deciso di quello architettato con Lost Highways, per molte misure.

Su di un piano,

prosegue dall’opera succitata il suo lavoro di ridefinizione umana, stavolta femminile, a partire da coordinate d’analisi assolutamente uniche, fuori scuola, sorprendenti: il doppio personaggio principale ha uno spessore indefinibile, una volta attrice di provincia che elargisce sorrisi placidi e ottusi, sprizza entusiasmo ed intraprendenza da tutti pori, un’altra volta, sovrapposta e compenetrata, una donna scura, vuota (di testa per trauma, di cuore per morale), enigmatica e dissoluta. Tra le due figure, che oscillano ATTRAVERSO E ATTORNO alla scrittura del loro personaggio e non solo DENTRO il medesimo come tipicamente nei plot cinematografici (questa la grande idea di Lynch), un lungo susseguirsi di scambi d’occasioni ed osmosi emotive che le portano ignare ad inseguire una pista circolare attorno alle loro stesse duplici esistenze; conducendo noi e loro ad una buffa ricerca senza fine attraverso piccoli traumi, rivelazioni, inganni, false tracce e muovendosi in una Los Angeles apparentemente ridente e vernacolare nell’aspetto esteriore ma sinistra, terribilmente ostile nei rapporti umani.

I segni raccolti dalle due donne sembrano dapprima casuali e senza collegamento alcuno, ma vanno invece pian piano a saldarsi alle vicende di spina sulla spinta di una lettura "doppia" degli eventi: esattamente come Lost Highway, Mulholland Drive possiede una lingua biforcuta che parla stavolta una dialetto al femminile, ben più morbido e sensuale del precedente. Il lesbismo delle protagoniste è proprio l’immagine di questo idioma "interno", linguaggio concordato segretamente e segretamente concesso, quasi immagine dell’organo genitale, ai lati frastagliato come il passaggio delle due, mano nella mano, attraverso un bosco, per saltare da un mondo al suo rovescio, da una esistenza al suo negativo o da un’immagine ad un sogno.

L’abilita’ di confondere e rifondere le letture reali ed oniriche non impedisce comunque di intravedere (e sto approssimando molto, sia chiaro), una struttura che propone per i primi tre quarti del film un quadro curioso ed estraniato del mondo, un potente condensato di situazioni, corpi, oggetti, strutture, luoghi ed emozioni esposte con la consueta freddezza e assoluta modernita’ lynchiana, una sorta di "Guernica americano" per tentare di definirlo come un dipinto, e all’inizio senza alcuna particolare "direzione" di senso, mi è sembrato. Ma esattamente come un sogno, molte volte giustificato goffamente dalle scienze come un semplice trasformatore di ricordi, prende invece sempre più rapidamente un senso particolare, "aggrovigliato", proprio come un dipinto d’arte moderna o le gerarchie complesse d’infinito che i pochi spiriti matematici tra di voi sicuramente conoscono.

Inoltre tale quadro, gia’ denso di crepe attraverso le quali è possibile scorgere un misterioso "qualcos’altro", si trasforma improvvisamente con un salto nel vuoto (o meglio un salto in una "piccola scatola blu" ) in un ALTRO modo-film nell’ultimo quarto di proiezione, come se le variabili impostate fino a quel momento avessero subito uno scarto improvviso e irregolare, incalcolabile con la ragione.

Tutto cio’ proietta in un esposizione forse più "reale" della realta’ sino alla fine, e che più obiettivamente lascia per molti motivi intendere tutta la prima parte come una sorta di rivalsa onirica della bionda protagonista nei confronti del mondo che l’ha schiacciata nel lavoro e nel sentimento.

Tra le due visioni il regista dispone poi un "centro magico" con la scena della rappresentazione teatrale, ai limiti del delirio per molti, ma densa di significati evidentemente "superiori" al film e allo stesso tempo probabilmente la vera, difficile chiave dell’enigma Mulholland Drive. Il salto dimensionale succitato è infatti proprio innescato in parallelo all’unione carnale delle protagoniste, al ritrovamento della chiave che apre il misterioso "blue box" e alla visita delle due al "teatro del silenzio" (imperdibile). È quasi una congiunzione astrale nel microuniverso del film che assomiglia per molte ragioni alle scene dell’hotel e della casa incendiata in riva al mare in Lost Highways ed un momento fortemente vorticoso nei tagli e nelle azioni che percuotono i neuroni del povero spettatore ad una frequenza rapidissima e quasi insopportabile. Rappresenta inoltre per l’autore forse l’unico modo per rompere i due grandi "tratti" del film e passare alla seconda dimensione di vita della coppia Betty/Diane, di li’ in poi diversamente disposte in logica di potere l’una sull’altra, condizioni sociali ed emotive, passioni, destino.

Al pari nel finale si compone una spirale rapida d’emozioni e congiungimenti che riesce con fantastiche, equilibristiche manovre a ricondurre al laccio le coordinate iperboliche lanciate fin dai primi fotogrammi e saldare, come in Lost Highways, non solo la fine al principio ma anche il centro ai due estremi del lungometraggio e calare come in ultima mano al gioco le carte rimaste, forse quelle decisive, sicuramente le più imperscrutabili.

Su di un altro piano,

per questo film, forse per motivi senili, più manifestatamente, si ricerca quasi una nuova morale attraverso un work-in-parallel col Billy Wilder di Sunset Boulevard, pellicola da noi conosciuta come il "Viale del tramonto" (1950), mediante alcuni riferimenti più o meno nascosti a questo classico: nel titolo, ovviamente; nella struttura total-flashback, qui espansa, complicata e attualizzata con splendida scienza registica; nell’affresco spietato del jet-set hollywoodiano, in fondo scuola dell’arte mondiale cui il regista sembra conferire un’aurea quasi demoniaca; in alcuni characters; nel clima generale d’un tetro dramma orchestrato ai danni della protagonista (si intende la seconda, nel tempo), che sembra quasi impotente, sopraffatta, vile strumento di una societa’ cinica e orribile che tutto insozza e nulla protegge.

Tuttavia cio’ che rode l’animo, questa volta, è in fondo una gelosia assolutamente personale che colpisce Diane come un sogno di carriera infranto, propriamente. Ed è una sentimento assolutamente intimo, che si fa cosmico d’un universo strettamente personale e catalizza nella sua psiche trasformazioni percettive dalla figura e dai contorni familiari eppur d’essenze profondamente diverse. Le corrisponde ad esempio in prima persona una ragazzotta semplice ma dai comportamenti inaspettatamente accorti e si tratta di incongruenze e mutazioni tipiche del ricordo o dell’impressione onirica, a ben vedere.

C’è insomma in generale una differenza magica che riecheggia la realta’ rifinendone e smussandone alcune parti, stravolgendone e dilaniandone altre, lasciando nello spettatore lo stupore di veder esposte, come in una campagna pubblicitaria comparativa, la sua vita come è e come vorrebbe invece che FOSSE, e per aggiunta e scherno rivelati nel finale (forse unico neo, un po’ affrettatamente) alcuni dei meccanismi segreti del suo cervello per far si’ che la nostra vera, miserabile esistenza possa dirsi sopportabile oppur che ci conduca a morire sia di un grande sogno d’amore tradito e deriso quanto d’una sciocca, incontrollabile paranoia a proposito di un mostro in agguato nel retro di un fast-food.

 

In definitiva,

arrivati a questo punto le letture possibili nel particolareggiato delle scene non dipendono certamente da un limite nell’opera, che possiede almeno una mezza dozzina di chiavi interpretative oltre la mia ed ha gia’ donato per tutta la sua durata immagini e quadretti fenomenali e divertenti, raffinatezze fotografiche e multicollegamenti a non finire, anche autocitazioni e qualche sberleffo: dipendono effettivamente dal quoziente intellettivo dello spettatore come dalle sue scelte culturali e morali, capacita’ intuitive, di gusto estetico, auditive (un sonoro da oscar) e perfino sensitive (mi riferisco alla magia, qui presente più che mai), adattandosi magnificamente ad un’ampia variazione di queste e penetrando profondamente nel nostro sentire giorni e giorni a seguire la proiezione, forse influenzandoci perfino durante la degustazione del caffè "espresso" alla mattina (cfr. la scena), e confermando indubbiamente l’autore uno dei migliori stregoni del cinema in circolazione accanto a Cronemberg e pochi, pochissimi ALTRI.

Andrea Capanna