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FANTASMI IN UNA CORNICE NOIR: RIFLESSIONI SU MULHOLLAND DRIVE di Nino G. D’Attis (leggi anche l'articolo) | |
"Ma il cinema, se è cinema, non si può raccontare. Lo si può solo spacciare, facendolo. E vaneggiare." (Carmelo Bene)
L’ ultima parola prima dei titoli di coda è "Silencio". Impossibile dire altro alla fine di quest’ultimo lungo (doppio) sogno firmato da David Lynch. "Silencio" è un congedo perfetto: ci si alza lentamente dalla poltrona e, in uno stato di piacevole stordimento, si esce dalla sala cinematografica ignorando il brusìo di chi (miserabile) sullo schermo non ha visto niente e magari protesta: "C’era da aspettarselo, Lynch è tutto così." Solo Lynch, purtroppo. Lo stesso che in un’intervista al quotidiano francese Libération lamenta a ragione l’assenza pressoché totale di sogno nel cinema contemporaneo. Ė un cowboy solitario il Lynch di Fuoco Cammina Con Me, Strade Perdute e adesso di questo bellissimo film salvato dai francesi di Studio Canal + dopo il rifiuto della rete americana Abc di metterlo in onda come pilota dell’omonima serie tv. Mulholland Drive: sapore d’infanzia, magia di un titolo che richiama le meravigliose parole prive di significato inventate dai bambini. Muuul-hol-land Drive...dalle parti di Rosebud, non c’è dubbio. Giù nella Hollywood ombrosa della Dalia Nera, di Bettie Page, di James Ellroy ("Los Angeles: arrivi spregiudicato, riparti pregiudicato"), di una canzone di Marilyn Manson intitolata In the Shadow of the Valley of Death. Ancora strade perdute, percorsi che si interrompono bruscamente, misteriosi sentieri che si aprono nel buio. Basta un incidente d’auto: epifanìa delle alterazioni della carne per Ballard e Cronenberg, evento che apre una finestra sugli sconfinamenti identitari da sempre ossessione di Lynch. Così, la donna che esce dalle lamiere e si allontana claudicante dalla scena dello scontro automobilistico non conserva memoria del suo passato. Ė una mente cancellata, resettata e (anche) un corpo-schermo che, oscillando tra vero e falso, tra vivo e morto, passato e presente, arriva da un altro film, da un altro tremendo incidente (Lara Flynn-Boyle soccorsa da Lula e Sailor in Cuore Selvaggio) per farsi icona anni Cinquanta, desiderio (re)incarnato, real doll palesemente artificiale. Eccede, Lynch. Lucidamente iconoclasta, determinato a fare a meno del lógos, sottrae e disvela il balocco-cinema sostituendo tutte le pippe intellettuali sull’argomento con l’amour fou et solitaire di un’amante tradita. Sesso e lacrime, storia di fantasmi e di illusioni che si spezzano, saggio (feroce) sull’industria di Hollywood, discorso amoroso frammentato in una cornice noir, mistero di una scatola blu nelle mani di un barbone custode di rottami nel retro di un fast-food. E non è tutto qui,ci mancherebbe. Quando una cantante ispanica crolla esanime sul palcoscenico sopraffatta dall’emozione, dalle troppe repliche o semplicemente dagli stravizi, la sua voce continua a cantare. Tutto finto: incarnando il Welles di F For Fake, il presentatore non si era fatto scrupolo di metterci all’erta sul playback. Via il corpo, resta la voce. Sopravvive il canto di un cuore solo in contemplazione del proprio cadavere disteso su un letto. Cinema-voyeur in elegante abito da sera al funerale del cinema assassinato dal business (impotente, il Giovane Regista di Successo, dovrà rassegnarsi a girare il suo musical con una protagonista imposta dall’alto). Cinema che prende in prestito un nome (Rita) e inventa (non clona) due nuove attrici straordinarie quali Laura Harring e Naomi Watts. Mulholland Drive chiede davvero troppo allo spettatore medio. Chiunque abbia condannato se stesso alla fruizione di prodotti usa e getta non potrà che rifiutare l’invito (lo stesso lanciato da Eyes Wide Shut di Kubrick) a rivedere il film più volte. Non proprio per capire, quanto per rituffarsi in un’opera complessa, stratificata che parla ai sensi più che alla ragione. Una musica che ammalia e al tempo stesso non fa niente per nascondere i trucchi di un’orchestra che non c’è: è affondata insieme alla nave/teatro ferita dal gigantesco iceberg, è rimasta sepolta sotto le macerie dopo la prova generale di felliniana memoria, è diventata lo spettro di una chance. Perché, una volta accertata l’assenza di battiti sul polso del cinema contemporaneo, Mulholland Drive si configura come una pellicola in grado di rendere lo spettatore vulnerabile. Conserva il potere delle opere senza tempo, vive di una forza insperata e ci ricorda che questo è quanto dovremmo chiedere ancora ai cineasti ogni volta che scegliamo di chiuderci in una sala buia insieme ad altri sconosciuti. Un abbandono: lasciarsi andare alle apparizioni accecanti, ai nani, ai giganti, alle red rooms, agli oggetti tipicamente lynchiani (il caffé, la macchina per il caffé, le sigarette, le automobili e così via), ai morbidi corpi e ai (molti) nomi di donna: Betty/Diane, Rita/Camilla. Confusione, sgomento: sono trame di sogni, nient’altro. Mandala infiniti ricostruiti pezzo per pezzo, fotogramma per fotogramma su un set, poi in sala montaggio, infine nella testa di chiunque abbia davvero (?) visto qualcosa.
un ottimo sito dedicato al regista
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