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 (Leggi anche la Recensione di La Ragazza che non era lei)


INTERVISTA A TOMMASO PINCIO  di Nino G. D’Attis

 

La radio del Karma aveva annunciato da tempo Tommaso Pincioquesto incontro con lo scrittore Tommaso Pincio. Dove? Come? Quando? Vai a saperlo. Forse nella casa sulla cascata di Norma Jean Mortensen. Forse sotto il cielo sempregrigio di Aberdeen. Oppure davanti al Grande Vetro. Infiniti universi paralleli, illimitate opportunità.

   Avevo le domande. Stavo ascoltando Billy is a Runaway di Iggy Pop per tenermi a distanza di sicurezza dai rumori del traffico romano e a un certo punto si è aperto un varco, proprio come ne La Ragazza che non era lei, il romanzo appena uscito per Einaudi dopo M (Cronopio, 1999), Lo Spazio sfinito (Fanucci, 2000) e Un Amore dell’altro mondo (Einaudi, 2002).

«Ok, facciamo l’intervista.»

«Dove? Come? Quando?»

«È importante?»

********

Mentre leggevo La Ragazza che non era lei ho avuto l’impressione che dentro questo romanzo alberghi, più che nei precedenti, una critica alla realtà e ai suoi aspetti più ordinari che diventa un invito alla fuga. È così?

Non sono contrario all’idea di realtà in sé. Detesto invece il modo in cui viene manipolata da chi detiene le leve del comando. In teoria non ci dovrebbe essere nulla di più immediato della realtà. Nel concreto però le cose stanno alquanto diversamente. La realtà con cui ci confrontiamo quotidianamente è un contratto sociale pieno di clausole vessatorie. Alla realtà vera, semmai ce n’è una, possono accedere soltanto i pochi eletti che dispongono delle entrature giuste. Nel corso degli anni mi sono reso conto di quanto la mia inclinazione a raccontare storie con un alto tasso di inverosimiglianza nasca proprio dal fatto che la realtà è spesso usata per giustificare intollerabili iniquità. Il salto che ho tentato con il mio ultimo romanzo è di dare forma a questa consapevolezza, porre interrogativi di natura politica attraverso derive sfrenate nel fantastico. La fuga non vuole però essere una soluzione. È semplicemente la manifestazione di un disagio, la risposta all’impulso rabbioso di dire no.

 

E poi c’è la constatazione di ciò che il potere riesce a fare: “(...) cent’anni sono un tempo in cui è possibile combinare un sacco di casini.” William Burroughs, investigatore psichiatrico specializzato in pedinamenti psicosomatici, avrebbe sottoscritto!

Lascio rispondere Burroughs che nel 1968, commentando la repressione delle manifestazioni di piazza, disse: «E cosa urlano quei fantasmi in divisa da Chicago a Berlino, da Città del Messico a Parigi? “Siamo REALI, REALI, REALI!!! come questo MANGANELLO!” Mentre sentono alla loro confusa, animale maniera, che la realtà li sta abbandonando».

 

Fenditure e varchi: i due protagonisti ne trovano uno accidentalmente all’interno di un fast-food. Ho pensato a un bellissimo saggio di Elémire Zolla: Uscite dal mondo. L’hai letto?

Perdona l'ignoranza, ma non sapevo nemmeno che esistesse. Il titolo promette bene, dunque vedrò di procurarmelo.

 

Laika Orbit non riesce a leggere le mappe del luogo in cui si trova intrappolata. È incapace di decifrarle, confusa non dal territorio ma dai sentimenti contrastanti che prova verso l’uomo che l’ha portata laggiù, dal vincolo di dover convivere con la sua realtà. È a metà strada, sospesa, e questo la disorienta. L’ho trovato modo non banale di parlare delle relazioni umane e delle loro complicazioni...

La scena cui fai riferimento proviene da quella frase che nelle carte geografiche di secoli fa segnava il confine degli spazi ancora ignoti e inesplorati: «Da qui in avanti, i draghi». Oggi simili luoghi non esistono più, ciò non vuol dire che ci siamo liberati di quello stato mentale. Laika finisce prigioniera di un mondo assurdo perché decide di oltrepassare il limite delle consuetudini e trova i draghi. Accetta di seguire uno squinternato per dare un calcio a una realtà che è ai suoi occhi sembra meschina e avvilente. Il suo può essere interpretato come un capriccio e in fondo lo è davvero. Ma la cosa che più mi piace di Laika è che sceglie di vivere. Sceglie di fare qualcosa che per lei significa vivere e quando scopre di essere stata vittima di un inganno non rinnega niente perché sa che la causa di tutto è lei. È lei il drago di se stessa, non lo squinternato l’ha portata laggiù e nemmeno i due schifosi figuri che la violentano in una squallida stanza d’albergo.

 

Cosa ti ha affascinato di più nella figura di Alan Turing? La sua biografia è a dir poco bizzarra: scienziato precoce, carattere marcatamente infantile, una morte avvolta nel mistero... tra l’altro fu anche amico di Ian Fleming, il papà di James Bond...

Le stranezze sono un fenomeno tutt’altro che raro tra i matematici. Ho scelto Turing perché un giorno disse «Mi ritiro a costruire un cervello artificiale», perché è il padre della civiltà informatica. Nel romanzo la sua figura è contrapposta a quella di un altro matematico con altrettante rotelle fuori posto, Ted Kaczynski, uno che quella civiltà voleva abbatterla a forza di bombe artigianali. In queste due figure agli antipodi il protagonista maschile del romanzo, Zxyz, si illude di riconoscere un nonno e un padre ideali con effetti devastanti per il suo equilibrio interiore.

 

Un altro personaggio che mi ha colpito è Boom. Sembra un comprimario, invece alla fine viene fuori che è un tipo capace di “sparire completamente” (per citare i Radiohead) dal secolo scorso e riapparire in questo... Da lettore gli ho dato la faccia di Dennis Hopper versione Apocalypse Now.

Per la verità Boom è ispirato a Goa Gil, il guru della psychedelic trance. La tua associazione è però molto pertinente. Certe sequenze di quel film sono impresse in modo indelebile nella mia mente. La dimensione oscura e allucinata di Apocalypse Now è un luogo cui faccio ritorno costantemente. Forse perché è stato ispirato da un libro che è all’origine del mio avvicinamento alla scrittura, Cuore di tenebra di Conrad.

 

Quanto tempo e quante stesure ha richiesto il nuovo romanzo?

Quasi tre anni e quasi tre stesure. L’ho iniziato qualche mese dopo la pubblicazione di Un amore dell’altro mondo, parliamo del 2002, e ho continuato a lavorarci fino alla primavera scorsa. È stato certamente il libro che mi ha portato via più energie, quello che più di una volta è stato sul punto di sfuggirmi di mano e al quale, proprio per questo, sono più affezionato.

 

Ricordo di aver letto da qualche parte di un tuo soggiorno americano, anni fa. Ci sei tornato mentre lavoravi a La Ragazza che non era lei o ti sei lasciato invadere per intero da un'idea dell'America fatta di cose, luoghi, personaggi?

Ho vissuto a New York che è qualcosa di molto diverso dalla California che descrivo nel romanzo, per cui direi che il mito prevale sul resto.

 

Come ti sei avvicinato alla scrittura? Puoi raccontarci il tuo apprendistato?

A poco a poco e tardivamente. Nei primissimi anni Novanta mi trasferii a New York con pochissimi soldi e la speranza di ritrovare me stesso e la voglia di dipingere che avevo perduto dopo essere uscito dall’Accademia. Trovai casa ad Alphabeth City, nel Lower East Side, che all’epoca non era un quartiere molto raccomandabile. Lavoravo per un pittore, Jonathan Lasker, ma stranamente invece di riprendere in mano i pennelli mi sono appassionato alla scrittura. Credo che il fatto di vivere in un paese dove parlavano una lingua straniera mi abbia spinto a prestare più attenzione alle parole. Lo ricordo come un periodo felice, il solo che rimpianga davvero, malgrado campassi a forza di hot dog e dormissi spesso con il cappotto perché l’impianto di riscaldamento si rompeva in continuazione. Quanto all’apprendistato, leggevo quello che passava il convento di laggiù osservando quel che capitava nelle strade, i barboni nelle loro case di cartone, gli spacciatori neri sono casa, i malati di AIDS che giravano con il volto bendato come mummie. Era una New York distante ere geologiche quella attuale, una città in piena recessione economica e sotto tanti aspetti primitiva e selvatica.

 

In almeno due occasioni (il romanzo M. e il tuo intervento nella raccolta di saggi su Thomas Pynchon La Dissoluzione onesta) hai parlato di Duchamp. Ci sono altri artisti che ti hanno colpito altrettanto?

Ho studiato all'Accademia di Belle Arti. Ho fatto l'assistente per vari pittori, italiani e americani. Ho lavorato per più di dieci anni in una galleria. Ho respirato arte contemporanea da sempre. È per questo che i miei romanzi sono pieni di riferimenti più o meno espliciti alle arti visive in generale. Oltre a Duchamp e forse più di Duchamp, ci sono molti artisti che hanno formato il mio modo di vedere. Al primo posto metterei Andy Warhol, la cui importanza non è stata tanto l’invenzione del Pop quanto la rappresentazione della civiltà postmoderna come cultura di morte. La sua ossessione per sedie elettriche, incidenti stradali, criminali ricercati dalla polizia, suicidi e denaro viene forse dal fatto di essere nato il 6 agosto, il giorno in cui gli Stati Uniti sganciarono la bomba atomica su Hiroshima. A ruota seguono la visionarietà metafisica di Hopper e De Chirico, i surrealisti e Max Ernst in particolare, la poesia concettuale di On Kawara, quel nomade geniale di Alighiero Boetti che ho avuto la fortuna di conoscere negli ultimi anni della sua vita. Passando ai contemporanei, ho una passione molto speciale per Tom Friedman. Anche Cattelan mi piace assai e siccome l’elenco completo sarebbe troppo lungo, mi fermo qui.

 

Che tipo di percezione ha del pubblico, dei suoi lettori uno scrittore che ha scelto di salvaguardare la propria identità andando ben oltre la scelta di uno pseudonimo? Te lo chiedo perché, a differenza di altri tuoi colleghi, non ti sei mai imbarcato in tour promozionali di libreria in libreria.

Non sono un fanatico della privacy, altrimenti non concederei interviste, ti pare? La ragione per cui limito al minimo indispensabile presentazioni e apparizioni in genere è che preferisco impiegare diversamente il mio tempo. Vero è che talvolta me sto eccessivamente per i fatti miei, ma c’è ben poco di ideologico in questo. Tendo alla solitudine per idiosincrasia, tutto qua, e non ne vado affatto orgoglioso. Quanto al pubblico, non è che mi ponga chissà quali domande. Mi rifiuto di dargli una connotazione unitaria. Per me il pubblico sono decine e decine di singoli individui in tutto e per tutto simili a me, ovvero persone che si avvicinano a un libro sperando di trovare un modo imprevisto di guardare alle cose, un amico ideale, una forma di consolazione, qualcosa da amare o  magari semplicemente qualcosa. Sono fermamente convinto che la vera entità astratta della letteratura non sia il pubblico ma gli scrittori. Quando anch’io mi trovo dall’altra parte della barricata mi rendo conto che penso ai romanzi come ad astrazioni spuntate dal nulla o al massimo da una tipografia. Kafka, per me, non è mai stato un essere umano ma soltanto un nome stampato sulla copertina di libri meravigliosi. L’individuo che egli fu prima di morire lo vedo completamente risucchiato nelle sue storie, e lo stesso vale anche per gli scrittori viventi. So bene che molte persone sono curiose di conoscere gli autori che amano, vedere come sono fatti, come si muovono, ascoltarli parlare. È legittimo. Io, però, non ho mai coltivato simili curiosità. Trovo che i libri siano più che sufficienti e credo pure che quasi mai gli artisti siano all’altezza delle loro opere. Me per primo.

 

Leggenda urbana: in caso di apparizioni pubbliche, Tommaso Pincio fa come Maurizio Cattelan che manda al suo posto un amico. Smentisci? :-)

Non smentisco mai nulla per principio, tantomeno le leggende urbane.

 

Tra un libro e l’altro ti occupi di letteratura su diversi periodici e anche sul web. Come è cambiato – se è cambiato – il tuo approccio alla lettura da quando hai cominciato a pubblicare?

Non molto, praticamente nulla. È invece mutato il mio rapporto con la scrittura. La certezza della pubblicazione mi ha indotto ad abbandonare la lingua eccessiva e inutilmente sperimentalista di M., il mio primo romanzo. Sono diventato più consapevole di quanto possano risultare inaccettabili le storie che ho bisogno di raccontare e quindi ho cercato di rendere estremamente leggibile il modo di raccontarle. Con quali risultati non sta a me dirlo.

 

Quali sono le tue posizioni su due temi come il copyleft letterario e la carta ecosostenibile che diversi autori in Italia stanno scegliendo di imporre ai loro editori?

Dico che fanno bene.

 

Chiudo con una curiosità: lo stesso giorno in cui il tuo ultimo libro è arrivato in libreria il mensile Focus è uscito con una copertina che strillava: “Siamo liberi o il futuro è già deciso? ESISTE IL DESTINO?” Ci sono scrittori che darebbero un braccio per un lancio pubblicitario così fortuito! :-)

Il destino, come Dio, non è altro che un’invenzione umana e pure alquanto patetica. Il che, purtroppo, non implica che non esista. Ma dal momento che il destino fa di testa sua senza mai avere la delicatezza di interpellarmi, io faccio altrettanto. Il che, purtroppo, non implica che sempre ci riesca.

 

Grazie.