Davide Bregola vive a Sermide,
in provincia di Mantova. Ha esordito nel 1996 con tre racconti inclusi
nell’antologia Coda (Transeuropa), nel 1999 ha vinto il Premio Tondelli per
la narrativa. Nel 2002 ha pubblicato Da qui verso casa (Edizioni
Interculturali), un libro di interviste a scrittori stranieri che scrivono
in italiano e nel 2005 Il catalogo delle voci (Iannone), analoga inchiesta
sui poeti immigrati. Con l’editore Sironi ha pubblicato nel 2003 la raccolta
Racconti felici e nel 2006 La cultura enciclopedica
dell’autodidatta.
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Che pretese dovrebbe avere oggi il giovine scrittore da se stesso, visto che
è già stato vivisezionato ogni comparto della psicologia umana, esplorata
ogni trama? Come potrebbe in qualche modo aggiungere "rispetto"
all'esistente?
In generale non so se
potrebbe esistere una "pretesa" oggettiva capace di riunire tutte le
ambizioni e tutte le intenzioni. Da parte mia però sono sicuro che tutta la
scommessa si gioca nel trasformare la "tecnica" narrativa in "anti-tecnica"
senza però andare a riesplorare le avanguardie e gli sperimentalismi del
'900 spesso interessanti solo per gli addetti ai lavori e a volte noiosi, ma
cercando nell'"anti-tecnica" una nuova piacevolezza del testo, una originale
trama che renda interessante e avvincente una storia, uno stile leggibile e
in sé accattivante. Chi non riesce ad affrancarsi dalle regole scolastiche
afferma: "Tutto è già stato scritto, tutto non sarà più originale", chi
ricerca l'anti-tecnica invece troverà spazi inauditi, sconfinati luoghi di
narrazione. Dove stanno questi luoghi di narrazione? A mio parere stanno
fuori dalla scena, nella parte "oscena" della vita degli uomini. Tolti i
lustrini, smontata la scenografia, via le luci di scena, rimane il pubblico
e c'è lo scrittore. Quello è il luogo ideale per raccontare la storia,
quando la sua rappresentazione è finita inizia il tentativo del reale. Non
c'è più il realismo,
inizia il tentativo di raccontare il reale. Mi rendo conto di una
cosa fondamentale: l'opera che nasce per un grande successo e conquista un
largo pubblico da subito è necessariamente sintonizzata su un gusto già
diffuso, già radicato e che ha già vinto. È intimamente un'opera scaduta.
Chi fa qualcosa di nuovo ed esprime qualcosa che prima non c'era, non era
espresso, per forza di cose si trova in distonia col pubblico. Non c'è un
pubblico che preesiste all'autore: ogni autore si crea un proprio pubblico.
Quando uno scrittore esprime qualcosa di nuovo, rompe l'equilibrio su cui si
fondano scuole, cultura, politica, e la quiete e la perpetuazione cui esse
mirano. Crea così un pericolo, produce una crisi: e ne deve rispondere. La
crisi può migliorare le cose ma può anche peggiorarle. Vale la pena di
correre il rischio? Se si vuole percorrere la strada del pubblico e della
critica che preesiste all'opera basta guardare la tradizione e ciò che va
per la maggiore tra il grande pubblico, se si vuole percorrere la seconda si
deve fare come dicevo prima, ossia costruire un'anti-tecnica. Altro aspetto
da esplorare in un contesto come quello letterario in cui "vivisezionato
ogni comparto della psicologia umana, esplorata ogni trama" sembra non
esserci scampo, io mi affiderei alla de-progettazione dei progetti.
Progettare e de-progettare. Progettare e de-progettare. Lasciare solo
l'opera de-progettata e considerare il progetto un sottoprodotto, un aspetto
transeunte dell'opera. Raccontare l'osceno, anti-tecnica, de-progettazione
sono tre aspetti da sviluppare e portare a compimento sulla pagina. Così
facendo io punto tutto sulla "potenza". La "forma" affascina quando non si
ha la forza di capire cosa sia "la potenza" di un'opera e di estrapolarla da
essa. Cosa sia la "potenza" non riesco a codificarlo, però con La cultura
enciclopedica dell'autodidatta ho provato ad esprimerla.
Quando
e come il minimalismo (ombelicalismo, nella sua accezione negativa) si
redime da masturbazioni tediose e diventa opera importante o comunque
"riuscita"? Qual'è il confine? I segni distintivi che ne determinano o meno
la riuscita o il fallimento (l'"inutilità", mi piace definirla) del romanzo
che si pone più o meno in questo territorio.
L'ombelicalismo si evita quando si hanno le
idee chiare su cosa è "ombelicalismo". Se le intenzioni dell'autore sono di
scrivere un romanzo dell' "IO" nell'accezione che ne davano Bataille e
Lacan: "Chiunque racconti la propria vita, inevitabilmente, dandole forma di
racconto, la trasforma in finzione. La verità ha struttura di finzione",
diceva il secondo. Mi sembra che in questi ultimi anni il "minimalismo" sia
stato abbandonato da tutti o almeno non è più presente nei romanzi che
escono, con un certo valore, da almeno 10 anni. Il confine è esattamente
nello spazio in cui il personale diventa invece qualcosa di più esteso che
per pudore non chiamerò "universale" però tenderebbe a quello. Per evitare
il fallimento, o l'inutilità di un libro che mira a raccontare "il reale" e
non vuole essere ombelicale, oltre all'abilità narrativa, serve una sincera
e sofferta intimità con il genere umano. Serve una necessità, una forza di
illuminazione e di verità che i mediocri non riescono ad avere.
Hai raccolto una mare
di testimonianze sulla letteratura contemporanea e ciò che dovrebbe
rappresentare su
Vibrisse
una simile quantità di materiale non ti ha allontanato dalla verità? Ad
esempio c'è una teoria abbastanza diffusa secondo cui tutto il materiale di
controinformazione sui misteri di questo paese (caso Moro, un esempio)
paradossalmente confonde verità di una evidenza sconcertante.
Il materiale di scrittori, critici, lettori,
raccolto nell'inchiesta sul Romanzo italiano del XXI secolo è andata di pari
passo con la stesura di CEDA (acronimo del titolo del romanzo) e mi è
servito per stabilire anche la struttura del romanzo, ma non ha influito
sull'idea di Verità che volevo trasparisse attraverso il protagonista
Giovanni Costa. Il materiale scaricabile dal blog riguarda il progetto per
iniziare a discutere seriamente sullo scrivere oggi. Sul senso della
scrittura, sull'idea di rinnovamento o ripiegamento della scrittura
narrativa in questi primi anni del 21 secolo. Volevo indagare sulla
possibilità di didabbito inerente un'arte così vecchia, all'apparena, come
la scrittura. CEDA è un atto di fiducia anche nei confronti della
narrazione. Il protagonista Giovanni Costa cerca di scrivere un romanzo
sulla verità e quindi, converrai, è un atto di ingenua volontà e immensa
fiducia. Costa è candidamente ingenuo, e lo sa, anzi con questo candido
atteggiamento, ci gioca pure.
In molti dei libri più
importanti che ho letto recentemente l'io narrante si confronta con la
figura paterna. Quasi che a un certo punto del percorso esistenziale (e
letterario…) si renda necessaria questa operazione. Penso che sia un punto
di forza del tuo libro.
Il padre, nei libri che si sono letti in
questi ultimi anni, rappresenta la figura in cui si accentrano le ideologie,
le sconfitte, le vittorie, le contraddizioni avvenute dal dopoguerra ad
oggi. Mi spiego: i padri, per gli scrittori trenta quarantenni, sono coloro
su cui i loro padri hanno riversato tutte le loro speranze. Prima di loro
c'è stata una guerra devastante, dopo di loro il boom economico, il
benessere, le utopie del '68, la scolarizzazione di massa. Una classe
sociale si è affrancata dall'analfabetismo, ha abbandonato la campagna,
l'agricoltura, per andare in fabbrica, trasferirsi nelle grandi città. Per
cosa? Per dare un mondo migliore ai loro figli, che sono poi i nostri padri.
Laureati, o al limite diplomati, impiego facile, carriera, qualche
contestazione, le tutele sindacali, sociali, previdenziali. L'accaparramento
di tutti i luoghi di potere, la famiglia, la casa di proprietà,
l'appartamento al mare. Soldi investiti in bot e cct che fruttavano anche
ilo 60% in 1 anno negli anni '80. Tutto sembrava facile, in ascesa continua.
Invece? I loro figli si sono iperscolarizzati. Noi. Sono i figli
protagonisti dei libri cui fai riferimento. Personaggi letterari molto
prossimi alla realtà contemporanea. Gente che non si "sacrifica" in una
cooperativa di pulizie con negre e albanesi, che non vuole lavorare al call
center per 500 euro al mese, o se lo fa si lamenta costantemente senza
muovere un dito. Si lamenta. E basta. I soldi che mancano li danno i nonni
che ancora sentono odore di polvere da sparo degli anni '40. Oppure in
mancanza d'altro paga casa papà. Divorziato, o con l'amante, con la paura di
lasciarci le penne per un infarto o un tumore maligno. Ma intanto sta li. A
65 anni decide di non andare in pensione perché sta bene, si sente ancora
giovane. Scopa l'amante grazie a Cialis. Abbarbicato nel suo posto di lavoro
fisso. Stipendio buonissimo. I figli? Sono i trentenni che vengono dopo.
Laureati in materie umanistiche in cerca di posti di lavoro privilegiati.
Che non esistono più. Sotto l’attacco lento ma inesorabile dello sviluppo
economico e della ratio, sono in via di dissolvimento, in Italia, i legami
profondi che tenevano uniti gli individui ancora 60 anni fa. Inutile
piangerci su, o tentare di tornare indietro: i valori non sono concetti, ma
sentimenti, e una volta persi non c’è appello autorevole o politica
culturale che li possa riesumare: ci vorrebbe appunto una generazione che li
provasse ancora e li trasmettesse, ma è appunto ciò che manca, e questo
rende assurdo ogni tentativo di revival morale. D’altro canto, se questi
valori sono caduti, e non hanno retto allo sviluppo economico, occorre
riconoscere che in qualche modo avevano torto, erano falsi, irrazionali, e
meritavano di cadere. Essi originavano dalla credenza in una struttura
immanente alla realtà, conoscibile per rivelazione o ragione, che impone per
ogni caso della vita uno specifico tipo di comportamento. Dal dettato divino
o metafisico (la verità) si deduceva una determinata concezione del destino
umano. Da quando ciò non è più, la società regola sempre meno i suoi membri
dal di dentro, con i valori morali, ma piuttosto dal di fuori, con il potere
diretto e senza veli e le tecniche di persuasione dell’industria culturale.Di
fronte a tutto questo si pone il trentenne Giovanni Costa, protagonista de
La cultura enciclopedica dell'autodidatta, il quale, compresso nel
plasma di particelle libere che è divenuta la società - particelle governate
da un campo magnetico esterno che le avvolge in un vortice senza senso e
senza fine - decide di mantenere per lo meno integro il suo spirito, e di
continuare a pensare, nella convinzione che questo sia l’unico esercizio di
autonomia e dignità umana possibile. Egli si mette dunque a cercare
nientedimeno la verità, comprendendo bene che solo in rapporto a questa è
possibile ridefinire il giusto comportamento di sé e degli altri.
Ovviamente, tutti i valori in cui si incarna la vecchia verità, come
religione, patria, famiglia, lavoro, autorità, fedeltà, serietà, sacrificio,
non avendo più radici emotive in lui, gli rivelano il loro lato arbitrario,
brutale e disumano; ma anche i nuovi modelli di comportamento, ispirati
esclusivamente alla ragione strumentale, cioè all’esercizio indiscriminato
del proprio egoismo in ogni campo della vita, gli sembrano non meno
mostruosi e folli. Egli è dunque costretto a procedere come un autodidatta
(da ciò il titolo), cioè a rifiutare en bloc tutti i modelli culturali
proposti dalla società, e a ripartire, per così dire, da se stesso. A prima
vista la sua scelta sembra un’ingenuità, ma non lo è affatto, se si pensa
che ogni norma morale degna di questo nome deve innanzitutto rispettare
l’intelligenza e la libera volontà del singolo, la sua dignità umana, e in
merito a ciò ogni uomo è in grado di giudicare. I padri non sono nient
affatto migliori dei figli. il padre di Giovanni è descritto con crudele
pietà. Eppure sembra aver avuto vita facile. Il figlio tenta di
"ammazzare"idealmente il padre raccontandolo senza rete. Se qualcuno pensa
sia tutto riconducibile alla psicanalisi si sbaglia di grosso.
È più riconducibile ad un piano
sociologico, il rapporto dei padri coi figli, nei romanzi contemporanei. E
non psicanalitico.
Grazie.
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La cultura enciclopedicadell’autodidatta
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