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Sacralità omayade

     

DAMASCO, 29 giugno 2002

   
     

Sta cercando di insegnare al suo amico come passare da una verticale sulla testa, sollevandosi sulle mani appoggiate vicino alle orecchie, in ponte. Ma il suo amichetto proprio non ci riesce. Le gambe della verticale si ostinano a non proseguire il percorso nell'altra direzione. O stanno lì o scendono dallo stesso lato da dove sono salite.

 

E giù risa.  

La sala della preghiera della moschea degli Omayadi offre un gradevole riparo dal cocente sole di un pomeriggio di luglio passato a perdersi per vicoli di Damasco vecchia.

 

Si dice che questa moschea, sunnita, sia al secondo posto, in ordine di santità, dopo quelle di Medina e La Mecca, e Al Quds, o Gerusalemme. Personalmente mi sembra il quarto posto. Ma non è importante, non per qualificare la santità.

 

Se lo è la grandezza, ci siamo: 157 metri per 97, 4 porte, la cupola della sala della preghiera alta oltre 45 metri. Il cortile è l'unico punto della città vecchia da cui si possono ammirare i 3 minareti, belli e lavorati ma bassi, almeno, non alti come quelli turchi del Cairo. In uno pare ci apparirà Gesù nel giorno del giudizio. Su una delle facciate, resti di mosaici bizantini in oro brillano al sole.

Ma basta una frazione di secondo nel cortile per capire che neanche la grandezza determina il grado di santità.

 

Forse il luogo? La moschea fu fatta costruire dal califfo omayde al Walid ben Abdul Malek nel 705 dc, sui resti di una struttura presente dal nono secolo ac, prima come tempio del dio Hadad, poi di Giove, infine come basilica cristiana dedicata a San Giovanni Battista. La leggenda narra che ci vollero dieci anni e oltre mille artigiani per aggiornare la costruzione alla nuova spiritualità trovata. Alla fine, oltre 600 lampadari d'oro illuminavano la sala di preghiera. Incendi, terremoti, saccheggi di vandali, possono avere col tempo danneggiato

il lusso. Ma certo non hanno potuto nemmeno scalfire l'immateriale santità.

 

Quanto alle reliquie – la presunta testa di San Giovanni Battista, anche detto giano, se è sua anche la testa riposta in un simile mausoleo in Egitto – o alla garantita presenza divina hic et nunc  nel giorno del giudizio, nessuno dei due fattori serve all'indagine. Sono piuttosto delle conseguenze logiche, entrambi, di un concetto di santità già recepito. Forse Gesù davvero deciderà di andare a Damasco il giorno del giudizio (chi potrebbe biasimarlo? io interromperei il racconto se potessi andarci subito), ma non renderà, per questo, santa, la moschea degli omayadi, che evidentemente, se lui va lì, già lo è.

 

 

Santo, sacro, morale, etico, giusto. Dal reame delle idee, attraverso il ponte dei giudizi, fino alla politica più quotidiana. Il bene, i cattivi, le alleanze del male, sono ora nei servizi di ogni giornalista, escono

 

dai frigoriferi di chiunque si informi di cosa succede oltre la propria camera da letto, anche di tutti quelli che ci hanno rinunciato. Hanno autorizzato bombardamenti e altri ancora ne permetteranno. Come è sempre stato.

 

Per nascondere l'incapacità di ammettere i propri sbagli e porci interessi. Per non volersi fermare a capire nemmeno un attimo in più. Guardare senza vedere, ascoltare senza sentire, ingurgitare stereotipi già confezionati in comode dimensioni tascabili, senza la minima opposizione.

 

“Mi spieghi una cosa? - mi chiede Amir, alla Jabir house – è colpa nostra? Che abbiamo fatto di sbagliato perché voi capiste così male?' Balbetto veloce la parola ignoranza, per rassicurarlo. Poi mi ammutolisco. Sappiamo perfettamente entrambi di cosa stiamo parlando. Le due righe di conversazione precedente recitavano così: 'qual è la tua opinione?' 'su che?' 'della regione' 'che in 7 mesi e mezzo in medio oriente non ho visto né toccato niente di quello che pensavo avrei trovato'.

 

Ignoranza è sinonimo (o dovrebbe esserlo) di chiusura mentale. Il medio oriente è così vicino all'Europa che ha pochi corrispondenti fissi - se si esclude Gerusalemme. I reporter arrivano copiosi per l'evento specifico. Poi ritornano. In frazioni di esperienza, pur ripetute, non si possono che apprendere, alla meglio, frazioni di vita.

 

La fretta, dal canto suo, è un ostacolo alla comprensione. Se non mi fossi seduta all'ombra del lavabo del cortile, non mi sarei mai fermata a ricordare che quando mia nonna mi mandava a messa, per abituarmi a un qualche concetto di moralità e corrispondente santità, la domenica mattina, ero sempre svogliata. Sono certa che se mi avessero detto 'lavati, preparati, è ora di andare in moschea', un giorno qualsiasi, ma soprattutto un venerdì d'estate, avrei fatto i salti di gioia.

 

I bambini che correvano nel cortile sprizzavano felicità da tutti i pori. Urlavano, ridevano, liberi dal traffico, dai banchi affollati dei suq. Tentavano addirittura di giocare a nascondino, cosa non facile in uno spazio aperto come il cortile della moschea in questione. Giusto accucciati dietro il lavatoio ci si poteva nascondere, per correre all'antica lampada che una volta illuminava il posto e che ora fa da tana. Insha'allah, tana-libera-tutti.

 

Liberi da preconcetti che si spiegano che santo è il silenzio, la reverenza, piegare il capo e recitare omelie, inginocchiarsi e fare penitenza. Soprattutto, liberi di fermarci, capire, dialogare anziché uccidere.

 

camilla lai