Premessa: è vero, da
qualche stagione a questa parte il termine jazz è stato
violentato
e reso oggetto di abusi di ogni genere. Su quante etichette adesive, apposte
su altrettanti cd, è comparsa tale magica parolina, mentre poi i suoni
provenienti dagli stessi dischi “non ci azzeccavano” un granché con il
pensiero afroamericano?
È altrettanto vero, però, che grazie alle ispirazioni provenienti da tale
genere sono emersi nuovi talenti che, quelli si, sono riusciti a coniugare
il verbo tradizionale alla modernità. È successo nella club culture,
soprattutto dalle parti di Berlino con la prima, fresca ondata nu-jazz di
Casa Compost, ma anche nel Bel Paese. Non dimentichiamo gli accoliti della
label Schema, da Nicola Conte a Gerardo Frisina, passando per i Soulstance,
Paolo Fedreghini e Marco Bianchi. Ma c’è
dell’altro, e questa è la novità. Da una formazione (quasi) rigorosamente
jazz (spero di non abusare anch’io del vocabolo, da qui alla fine della
recensione…) si sono affacciati all’orizzonte artisti italiani che hanno
deciso, bagagli musicali al seguito, di intraprendere nuovi percorsi, verso
territori prossimi al pop nell’accezione più classica e felice del termine.
Ricordo nel 2004 gli ottimi esempi di Ivan Segreto e Amalia Grè. Ora è il
turno della bolognese Cecilia Finotti, figlia
d’arte (suo padre Aimone è contrabbassista e vibrafonista della Doctor Dixie
Jazz Band) e detentrice di un background di tutto rispetto. Per
approfondimenti relativi agli studi ed alle esperienze della Nostra, vi
invito a visitare il sito a lei dedicato (www.ceciliafinotti.com)
e a leggere l’intervista realizzata per Blackmailmag. In questo contesto mi
preme invece narrare dell’album Nevermore, delle sue incantevoli
spiagge sonore, sulle quali Cecilia passeggia delicatamente, posando la sua
voce particolare. Le spiagge sono composte di sabbia finissima, proveniente
dalle menti di personaggi come Mauro Campobasso
(chitarrista e coproduttore del disco), Fabrizio Bosso
(tromba, ha suonato nel più recente album di Sergio Cammariere),
Alfredo Impullitti (piano),
Alessandro
Svampa
(batteria), Mauro Manzoni (sax) e Luca Bulgarelli
(basso). Miss Finotti canta in inglese i testi da lei stessa composti (ad
eccezione della famosa Stormy Weather, 1933, scritta da Harold Arlen & Ted
Koehler). L’insieme è particolarmente evocativo, trasporta la mente avanti e
indietro nel tempo, alla ricerca delle eventuali ispirazioni dell’artista e
a caccia di ciò che può ricordare a noi che l’ascoltiamo. Questo non
significa assolutamente che Nevermore sia un lavoro privo di
originalità, tutt’altro, ma invece che i famosi e sopraccitati bagagli
musicali dei componenti di tale combo sono davvero voluminosi ed eterogenei.
Durante l’ascolto delle undici tracce ho percepito la presenza di
Beth Gibbons (Happiness), di Bjork (Invisibile
Enemy), di Emiliana Torrini (Silent Wind e
Nevermore), e di Julee Cruise e Angelo Badalamenti (lo so, sono malato, ma
quelli della factory lynchiana io li “vedo” dappertutto, nella fattispecie
ho “sentito” la Musa ed il Maestro in Tell Me Now e nell’interlude No More
Trust). Come vogliamo chiamare il cocktail di suoni generato da Cecilia e
dalla sua band? Semplicemente Pop (rigorosamente maiuscolo), Pop del terzo
millennio, laboratorio sonoro mai fine a se stesso, rispettoso del formato
canzone senza risultarne timorato. Questo è il nostro pop, l’altro lo
lasciamo con estremo piacere alle charts dei network radiofonici nazionali.
sul web:
www.ceciliafinotti.com
Bob Sinisi |