“Un uomo, una donna e una storia già raccontata”, ho cominciato così la mia
stroncatura a Mare Nero. A lei l’onore della difesa...
Lui e lei
si amano le famiglie non vogliono. In poche parole la storia più famosa del
mondo. Da Giulietta e Romeo in poi credo che ogni storia tra un uomo e una donna
sia già stata raccontata e pensando questo sarebbe superfluo insistere nel
farlo. In realtà devo dire che da quando ho iniziato a fare cinema io non ho mai
creduto alle storie e cioè non credo che la trama di per sé possa o meno
garantire il valore di un film. Film senza storia in senso classico sono
capolavori
(basti
pensare a Godard) e storie bellissime possono diventare film mediocri.
Quando ho
pensato a Mare Nero non ho pensato a una storia da raccontare, piuttosto
sono partita dall’idea di fare un viaggio e prima ancora da un’ossessione. Era
qualcosa che conoscevo bene emotivamente, qualcosa che mi apparteneva. La
scommessa era far diventare tutto questo una storia, quindi una sceneggiatura e
poi un film.
Mentre
le ossessioni e le emozioni che volevo ritrovare nel protagonista del film mi
erano chiarissime (tradimento delirio di gelosia senso di abbandono) non
sapevo davvero dove mi avrebbero portato in termini drammaturgici.
So che
qualcosa di tutto questo è rimasto in quel film, altro si è perso o non ha
trovato una sua strada definitiva. O forse piuttosto direi definita, il che in
assoluto potrebbe essere un pregio. Ma anch’io so che qualcosa invece è rimasto
in sospeso, irrisolto.
Recentemente ho presentato il film a Siviglia e un filosofo francese allievo di
Lacan ne ha dato una definizione che mi pare adatta anche perché racconta bene
il suo andamento: un film psicoanalitico.
Galeotto fu il trailer! Ricordo di aver pensato a una sorta di sfida,
qualcosa tipo: “La Torre entra nel campo di Mario Salieri, di Michael Ninn e
tanti saluti ai francesi che pensano possa bastare il nome di Rocco Siffredi in
cartellone per osare l’impossibile nel mainstream”...
Non so se
ti riferisci all’aspetto erotico dell’argomento. In realtà quello non mi ha mai
interessato se non potendolo legare a tutto quello che ci gira attorno,e quindi
il sesso come luogo dove viene messo in gioco il corpo, campo di battaglia di
pulsioni e sentimenti. Molto lontana dall’intenzione di fare un film erotico o
scandaloso e quindi nulla a che fare con i nomi dei registi che mi dici.
Volevo
raccontare “semplicemente” la paura di un uomo che guarda la donna che ha
accanto e si accorge di non sapere assolutamente chi sia e quindi ha
chiaramente e nello stesso momento il terrore di perderla.
Naturalmente questo terrore passa attraverso la possibilità di un tradimento ed
ecco dove viene messo in gioco il corpo. Il corpo di quella donna diventa Il
Corpo che scatena ossessioni. Ma in fondo la sua è una paura più antica,
assomiglia a qualcosa che ha a che fare con la perdita, con la morte.
Probabilmente questo aspetto è stato equivocato dal fatto che al momento
dell’uscita si è parlato di noir a luci rosse e cose simili . Sono spesso idee
di chi distribuisce il film per renderlo appetibile a un pubblico più vasto. Si
cerca di etichettare, di dare una indicazione appetitosa…Non so comunque quanto
si potesse renderlo un film di genere, è veramente un film poco raccontabile.
Non segue un andamento narrativo classico e per scelta e per necessità. Comunque
sarebbe meglio dire: è un viaggio. E a quel punto uno sa che cosa aspettarsi.
Anche se
oggi e in Italia è un lusso pensare di poter fare un film–viaggio diciamo che
mi sono presa questo lusso pagandone anche tutte le conseguenze.
Non è che
in assoluto non creda al valore della sceneggiatura, anzi.
In
Angela, il mio film precedente, la sceneggiatura era ferrea e al tempo stesso
semplice, quasi una cronaca. Questo mi ha dato la possibilità di fare un grande
lavoro con gli attori proprio perché sapevo di avere dei punti fermi sul piano
narrativo. È un bel modo di lavorare ma devi avere anche un meccanismo
produttivo che te lo permette e più tempo per le riprese.
Mare
Nero è un film concepito in nove settimane di riprese, ridotto via via a
sei. Sicuramente l’aver dovuto ridurre in corsa la sceneggiatura non ha
giovato. Ma era un rischio che avevo sottovalutato perché io ho sempre lavorato
in condizioni limite, tranne per Angela appunto che ritengo il film dove
ho potuto avere realmente quello che serviva, le mie esperienze produttive sono
state sempre di adattamento.
Da un
certo punto di vista mi è servito perché quando hai pochi mezzi devi avere molte
più idee (Tano da Morire è un film “di cartone” se ci si pensa…sei
settimane di riprese, attori presi per strada, scenografie di cartapesta…) ma
ci sono casi in cui non lo puoi fare. E questo era uno di quelli. Ma io non me
ne sono accorta fino in fondo, fino a quando mi sono scontrata con limiti
produttivi che avrebbero evidentemente influito anche sul contenuto artistico
del film. A quel punto non potevo più tornare indietro. Ma al montaggio- e devo
dire che con Jacopo Quadri ci siamo davvero immersi disperatamente nel materiale
fino a scorticarlo- è stato chiaro che qualcosa mancava.
Interrogato sull’argomento, Andrea Piva ha preso le distanze dallo script di
Mare nero, anche se il suo nome è presente nei titoli. Ci vuole
raccontare come è nata in realtà la sceneggiatura del film?
Inizialmente come ti dicevo sono partita dal desiderio di raccontare
un’ossessione. Il protagonista era un uomo e ad un certo punto ho sentito la
necessità di confrontarmi con un punto di vista maschile. Non c’era ancora nulla
di definito tranne l’idea di un uomo ossessionato dalla paura di perdere questa
donna incontrata da poco, una donna che forse lo tradiva o forse lui temeva
semplicemente che avrebbe potuto farlo. Era la storia di un uomo massacrato dal
desiderio del controllo. E come ogni paura profonda che ci divora quel uomo
avrebbe contribuito a farla diventare realtà.
Ho
incontrato Andrea raccontandogli questa idea e questa ho cercato di
trasmettergli. A quel punto non era ancora davvero definito che lavoro facesse
il protagonista (all’inizio avevo pensato a un fotografo che si trovava a
pedinare sempre più incalzante la sua fidanzata, niente di particolarmente
originale ma in fondo il lavoro del protagonista non era davvero il problema del
film, purché servisse a sviluppare la sua ossessione) Dopo qualche tempo però mi
rendevo conto che la questione che a lui stava più a cuore e dove finivamo per
arenarci sempre era in sintesi: ma le corna lui ce le ha o no? Insomma diciamo
che più proseguivamo nella scrittura più a lui sfuggiva il senso della paura,
dell’ossessione di quest’uomo. Voleva certezze e risposte e situazioni ben
definite in un territorio dove di certezze ce n’erano poche davvero. E proprio
su questa incertezza del protagonista dovevamo costruire la storia. Tutto questo
finiva per destabilizzarlo, come dice lui ironicamente e certamente metteva a
dura prova il suo sistema nervoso.
Ma non
credo certo perché di giorno in giorno io potessi cambiare l’identità del
protagonista- come dice lui in un nano esquimese da un culturista indiano.
Piuttosto mi rendevo conto che era complicato per lui attraversare e andare a
fondo di quelle paure, di quelle ossessioni.
Così ho
pensato che poteva essere semplicemente perché non le conosceva e che magari
era una questione di esperienze. Non bastava che io cercassi di trasmettergliele
a parole. Un uomo a trentanni ha certe paure a quaranta comincia a chiedersi
altro a cinquanta non si chiede più niente… o chissà che cosa.
A
proposito di questo di recente mi ha scritto l’attore Franco Branciaroli che ha
amato molto il film dicendomi di esserci si immedesimato perfettamente. Ma
parliamo di un uomo che di vita ne ha attraversata parecchia.
In
effetti credo che per quella storia ci volesse la sensibilità di una vita più
vissuta.
Ci siamo
lasciati senza rancore, almeno da parte mia. Ho trovato solo strano che
successivamente lui insistesse tanto per firmare lo script di una storia che
certamente non gli apparteneva affatto.
Abbiamo
provato a dirglielo ma lui ha voluto comunque esserci anche dopo aver visto il
film e certamente avendo notato quanto poco ci si potesse riconoscere. Così
trovo coerente che ne prenda le distanze , mi stupisce solo che quando avrebbe
avuto la possibilità di farlo ufficialmente non l’abbia fatto.
Ogni volta che un film italiano mi scontenta non posso fare a meno di
sentirmi tra le vittime di un cinema che si è sempre illuso di essere
all’interno di un discorso autoriale tramato alla base. Quale è la sua opinione
in proposito?
Risposta non pervenuta
Come si è preparata a Mare nero? Che tipo di ricerche ha fatto prima
di arrivare al primo ciak?
Uno degli
autori del soggetto, Marcello Siena mi ha messo in contatto con una sorta di
virgilio che mi ha condotto in luoghi pubblici di scambi di coppie, per le
strade di Roma e di Bologna. Ho passato molte serate ad osservare le auto che
giravano e si facevano segnali, le coppie che trasmigravano da un auto
all’altra, ho parlato con queste persone e mi sono fatta raccontare le loro
storie, i desideri, le abitudini. Questa è stata la parte più interessante, come
sempre. Sono stata nei locali di scambisti ed è lì che ho sentito questo senso
esasperante di morte, una lentezza quasi rituale di gesti sessuali di uomini e
donne senza volto. Corridoi bui e buchi dove guardare. E tutto in un silenzio
irreale. Dopo al bar ho parlato con le coppie che frequentavano il locale, ma le
parole non davano soddisfazione. In realtà le motivazioni e le spiegazioni sono
troppo razionali di fronte a un mondo che naviga negli istinti.
Come ha scelto Luigi Lo Cascio e Anna Mouglalis per i ruoli di protagonisti?
Mi
piacevano per motivi diversi. Luigi è sempre stato legato all’interpretazione di
personaggi da bravo ragazzo, avevo intuito in lui anche parecchi lati oscuri ed
è stato bello lavorare su quelli,Anna è un’attrice che ti dà tantissimo
materiale su cui un regista può lavorare, è creativa e generosa. Con gli attori
mi piace che siano anche i loro lati autentici a mescolarsi con quelli del
personaggio, che si mettano in gioco il più possibile, che si compromettano sul
piano personale. Ho capito che entrambi l’avrebbero fatto pur partendo da
esperienze e tecniche diverse.
Tra le poche cose che ho apprezzato davvero durante la visione del suo film
c’è senza dubbio la fotografia di Daniele Ciprì. Forse lei non sa che nella
nostra redazione il lavoro di Ciprì e Maresco sul corpo del cinema è considerato
sacro. Le andrebbe di raccontarci qualcosa del vostro rapporto sul set? Tra
l’altro non è la prima volta che lei collabora con Ciprì.
Io ho
cercato di avere una fotografia fredda che mortificasse i colori e facesse
risaltare i bianchi e i neri, i non colori, le ombre. Volevo quelle atmosfere
allucinate e quei bianchi accecanti. Ho cercato di trovare una strada di luce
che allontanasse dal realismo delle situazioni lavorando anche sui colori e sui
i toni della scenografia.
Come è nata la collaborazione con il compositore Shigeru Umebayashi per la
colonna sonora di Mare Nero?
Ci siamo
conosciuti a Tokyo per la presentazione di Angela nel 2002. Io avevo
amato molto le sue musiche per In the mood for love ed è stato divertente
perché ai tempi, per le musiche di Angela l’avevo cercato disperatamente senza
trovarlo. Al posto suo mi avevano presentato un altro compositore, Michael
Galasso che effettivamente firma le musiche di quel film e io ero stata sempre
convinta il tema del film fosse suo. Durante una serata in cui lui aveva bevuto
più del necessario io continuavo a lodarlo per quella musica e in particolare
per quello splendido violino e lui mi confessò quasi in lacrime di non aver
effettivamente scritto il tema di In the mood for love, il violino famoso
che credo ricordino in molti era invece di Umebayashi. Finì così la nostra
collaborazione. Le musiche di Angela le fece poi Andrea Guerra . Dopo
qualche mese a Tokio durante la presentazione di Angela mi si avvicina un
piccolo uomo e mi dice mi piace il tuo film e la musica assomiglia a qualcosa
che ho scritto per un altro film. Era Shigeru Umebayashi. Da allora siamo sempre
rimasti in contatto . La collaborazione con lui è il regalo più straordinario
che ho avuto da un artista a questo film.
E’ stato
dieci giorni a Roma durante il montaggio e ha composto una quantità enorme di
musica con un’ umiltà una generosità e una passione che ho trovato raramente
insieme a un talento così grande. Una delle poche gioie vere in un film che mi
ha fatto soffrire parecchio.
C’è stato un momento, intorno alla metà degli anni ’90 in cui si parlava
molto di registi come lei, Antonio Capuano, Mario Martone, Pappi Corsicato. Come
ha vissuto quel periodo e cosa sopravvive a suo giudizio di quell’ondata?
Per me
quelli sono stati anni di grande vitalità, di entusiasmo e ricerca. I nomi che
hai citato sono tra i registi italiani che mi piacciono di più e certamente
sento simili per sguardo e tematiche. La guerra di Mario è stato uno dei pochi
film italiani dello scorso anno che mi ha fatto pensare di aver visto del
cinema. La differenza sostanziale rispetto ad ora è che c’era in quegli anni
ancora la sensazione che si potesse fare cinema e non solo film, che si potesse
ancora osare e non avere l’obbligo di confezionare un prodotto paratelevisivo.
Penso anche ad altri autori che non hai citato come Beppe Gaudino di cui ricordo
un film bellissimo Giro di lune tra terra e mare, penso che oggi qualsiasi
produttore difficilmente potrebbe solo pensare di produrre qualcosa del genere.
Oggi quella libertà si è totalmente perduta stritolata dall’utopia degli
incassi ( che spesso non ci sono comunque) e, quel che è più grave, da una sorta
di censura preventiva e sottile operata su argomenti e sceneggiature. Poco tempo
fa ho rivisto Mon frère, un film di Patrick Cherau che racconta il
riavvicinamento forzato di due fratelli in seguito alla malattia di uno dei due.
Un film che racconta in sostanza il degrado lento e inesorabile di un corpo e
riflettevo sul fatto che in Italia non si sarebbe mai potuto fare un film del
genere. Il corpo e tutto quello che lo riguarda, dal sesso in tutte le sue
manifestazioni alla malattia, è tabù. O deve essere raccontato e ridotto in
rassicurante clichè. Non si può raccontare la violenza, non si può mostrare mai
nulla che sia vero, reale , doloroso, umano. Il lato oscuro della realtà, la
passione deve scomparire a favore di una visione addomesticata e ipocrita.
Sempre più spesso quando mi capita di vedere un bel film, la considerazione che
faccio è : in Italia non si sarebbe mai potuto fare. E non è davvero una
considerazione consolante.
Come vede lo stato attuale dell’industria cinematografica italiana? Quali
sono i suoi rapporti con il sistema produttivo?
Come ti
dicevo credo che viviamo in un periodo di fortissima censura. La cosa grave è
che è così scontata che viene considerato normale. Ormai i criteri di
realizzabilità sono criteri televisivi e quindi tutto deve essere uniformato in
quel senso. Le storie e il modo di raccontarle devono essere quelli. Ogni cosa
che tenti di uscire da questi binari viene bocciata in partenza. Ci sono ancora
voci fuori dal coro, penso a Sorrentino che ha fatto un film bello su un
personaggio sgradevole, penso a Garrone che nel suo ultimo film ha raccontato
una storia veramente estrema, ma sono sempre più rarità in un contesto di
melassa e rassicuranti sceneggiature paratelevisive.
Io ho
avuto certamente un percorso anomalo nel panorama produttivo italiano: inizio da
indipendente con i miei primi lavori, passo per una produttrice audace e allora
sconosciuta, Donatella Palermo che ha però l’intuito di farmi realizzare
Tano da Morire dopo i rifiuti di tanti che poi si sono pentiti, incontro per
il mio secondo film un classico truffaldino che mi tortura per anni , poi il
fortunato connubio con Rita Rusic che resta nella mia esperienza il rapporto
migliore e più gratificante da regista a produttore e infine incontro Riccardo
Tozzi e Cattleya per Mare Nero.
Penso di
aver sperimentato parecchie strade e possibilità produttive, ma tutto sommato
direi che l’unica cosa che mi è mancata è stata la possibilità di un lungo e
solido “matrimonio”
Con Rita
Rusic ci sarebbe stata l’opportunità di continuare, se lei non avesse preso
altre strade.Eravamo molto diverse ma incredibilmente complementari e ci univa
una grande passione per quello che facevamo. Credo che questo sia il vero
segreto di un buon rapporto con un produttore. Io ho bisogno di qualcuno che mi
assecondi e si fidi molto ma che al momento giusto possa dirmi anche no,
qualcuno con cui avere un rapporto di scambio. L’unica cosa che non sopporto è
la mancanza di passione, e l’approssimazione .
Al
momento sono tentata di cercare all’estero i produttori per il mio prossimo
film.
Le sue incursioni nel campo della videoarte sono state apprezzate da critici
di molto peso, un nome su tutti è quello di Teresa Macrì. Ha altri progetti in
questa direzione?
Ci penso
spesso e ho qualche progetto in quel senso. Tempo fa avevo iniziato a preparare
un’istallazione che raccontava contemporaneamente presente passato e futuro di
una donna. Io ho lavorato molto con il video, con la fotografia e mi piace
mescolare i linguaggi. Il video mi dà quella libertà che facendo un film devi
filtrare attraverso molte mediazioni
Grazie.
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