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INTERVISTA A ROBERTA TORRE
di J.R.D. Leggi la recensione di Mare Nero

Roberta Torre

“Un uomo, una donna e una storia già raccontata”, ho cominciato così la mia stroncatura a Mare Nero. A lei l’onore della difesa...

Lui e lei si amano le famiglie non vogliono.  In poche parole la storia più famosa del mondo. Da Giulietta e Romeo in poi credo che ogni storia tra un uomo e una donna sia già stata raccontata e pensando questo sarebbe superfluo insistere nel farlo. In realtà devo dire che da quando ho iniziato a fare cinema io non ho mai creduto alle storie e cioè non credo che la trama di per sé possa o meno garantire il valore di un film. Film senza storia in senso classico sono capolavori

(basti pensare a Godard) e storie bellissime possono diventare film mediocri.

Quando ho pensato a Mare Nero non ho pensato a una storia da raccontare, piuttosto sono partita dall’idea di fare un viaggio  e prima ancora da un’ossessione. Era qualcosa che conoscevo bene emotivamente, qualcosa che mi apparteneva. La scommessa era far diventare tutto questo una storia, quindi una sceneggiatura e poi un film.

 Mentre le ossessioni e le emozioni che volevo ritrovare nel protagonista del film mi erano chiarissime  (tradimento  delirio di gelosia  senso di abbandono) non sapevo davvero dove mi avrebbero portato in termini drammaturgici.

So che  qualcosa di tutto questo è rimasto in quel film, altro si è perso o non ha trovato una sua strada definitiva. O forse piuttosto direi definita, il che in assoluto potrebbe essere un pregio. Ma anch’io so che qualcosa invece è rimasto in sospeso, irrisolto.

Recentemente ho presentato il film a Siviglia e un filosofo francese allievo di Lacan ne ha dato una definizione che mi pare adatta anche perché racconta bene il suo andamento: un film psicoanalitico.

 

Galeotto fu il trailer! Ricordo di aver pensato a una sorta di sfida, qualcosa tipo: “La Torre entra nel campo di Mario Salieri, di Michael Ninn e tanti saluti ai francesi che pensano possa bastare il nome di Rocco Siffredi in cartellone per osare l’impossibile nel mainstream”... 

Non so se ti riferisci all’aspetto erotico dell’argomento. In realtà  quello non mi ha mai interessato se non potendolo legare a tutto quello che ci gira attorno,e quindi il sesso come luogo dove viene messo in gioco il corpo, campo di battaglia di pulsioni e sentimenti. Molto lontana dall’intenzione di fare un film erotico o scandaloso e quindi nulla a che fare con i nomi dei registi che mi dici.

Volevo raccontare “semplicemente” la paura di un uomo che guarda la donna che ha accanto e si accorge di non sapere assolutamente chi sia  e quindi  ha chiaramente e nello stesso momento il terrore di perderla.

Naturalmente questo terrore passa attraverso la possibilità di un tradimento ed ecco dove viene messo in gioco il corpo. Il corpo di quella donna diventa Il Corpo che scatena  ossessioni. Ma in fondo la sua è una paura più antica, assomiglia  a qualcosa che ha a che fare con la perdita, con la morte. Probabilmente questo aspetto è stato equivocato dal fatto che al momento dell’uscita si è parlato di  noir a luci rosse e cose simili . Sono spesso idee di chi distribuisce il film per renderlo appetibile a un pubblico più vasto. Si cerca di etichettare, di dare una indicazione appetitosa…Non so comunque quanto si potesse renderlo un film di genere, è veramente un film poco raccontabile. Non segue un andamento narrativo classico e per scelta e per necessità. Comunque sarebbe meglio dire: è un viaggio. E a quel punto uno sa che cosa aspettarsi.

Anche se oggi e in Italia  è un lusso pensare di poter fare un film–viaggio diciamo che mi sono presa questo lusso pagandone anche tutte le conseguenze.

Non è che in assoluto non creda al valore della sceneggiatura, anzi.

In Angela, il mio film precedente, la sceneggiatura era ferrea e al tempo stesso semplice, quasi una  cronaca. Questo mi ha dato la possibilità di fare un grande lavoro con gli attori proprio perché sapevo di avere dei punti fermi sul piano narrativo. È un bel modo di lavorare ma devi avere anche un meccanismo produttivo che te lo permette e più tempo per le riprese.

Mare Nero è un film concepito in nove settimane di riprese, ridotto via via  a sei. Sicuramente l’aver dovuto ridurre in corsa la sceneggiatura  non ha giovato. Ma era un rischio che avevo sottovalutato perché io ho sempre lavorato in condizioni limite, tranne per Angela appunto che ritengo il film dove ho potuto avere realmente quello che serviva, le mie esperienze  produttive sono state sempre di adattamento.

Da un certo punto di vista mi è servito perché quando hai pochi mezzi devi avere molte più idee (Tano da Morire è un film “di cartone” se ci si pensa…sei settimane di riprese, attori presi per strada, scenografie di cartapesta…)  ma ci sono casi in cui non lo puoi fare. E questo era uno di quelli. Ma io non me ne sono accorta fino in fondo, fino a quando mi sono scontrata con limiti produttivi che   avrebbero evidentemente influito anche sul contenuto artistico del film. A quel punto non potevo più tornare indietro. Ma al montaggio- e devo dire che con Jacopo Quadri ci siamo davvero immersi disperatamente nel materiale fino a scorticarlo- è stato chiaro che qualcosa mancava.

 

Interrogato sull’argomento, Andrea Piva ha preso le distanze dallo script di Mare nero, anche se il suo nome è presente nei titoli. Ci vuole raccontare come è nata in realtà la sceneggiatura del film? 

Inizialmente come  ti dicevo sono partita dal desiderio di raccontare un’ossessione. Il protagonista era un uomo e ad un certo punto ho sentito la necessità di confrontarmi con un punto di vista maschile. Non c’era ancora nulla di definito tranne l’idea di un uomo ossessionato dalla paura di perdere questa donna incontrata da poco, una donna che forse lo tradiva o forse lui temeva semplicemente che avrebbe potuto farlo. Era la storia di un uomo massacrato dal desiderio del controllo. E come ogni paura profonda che ci divora  quel uomo avrebbe contribuito a farla diventare realtà.

 Ho incontrato Andrea raccontandogli questa idea e questa ho cercato di trasmettergli. A quel punto non era ancora davvero definito che lavoro facesse il protagonista (all’inizio avevo pensato a un fotografo che si trovava  a pedinare sempre più incalzante la sua  fidanzata, niente di particolarmente originale ma in fondo il lavoro del protagonista non era davvero il problema del film, purché servisse a sviluppare la sua ossessione) Dopo qualche tempo però mi rendevo conto che la questione che a lui stava  più a cuore e dove finivamo per arenarci sempre era in sintesi: ma le corna lui ce le ha o no? Insomma diciamo che più proseguivamo nella scrittura più a lui sfuggiva il senso della paura, dell’ossessione di quest’uomo. Voleva certezze e risposte e situazioni ben definite in un territorio dove di certezze ce n’erano poche davvero. E proprio su questa incertezza del protagonista dovevamo costruire la storia. Tutto questo finiva per destabilizzarlo, come dice lui ironicamente e certamente metteva a dura prova il suo sistema nervoso.

Ma non credo certo perché di giorno in giorno io potessi cambiare l’identità del protagonista- come dice lui in un nano esquimese da un culturista indiano. Piuttosto mi rendevo conto che era  complicato per lui attraversare e andare a fondo di quelle paure, di quelle ossessioni.

 Così ho pensato che poteva essere semplicemente  perché non le conosceva e che magari era una questione di esperienze. Non bastava che io cercassi di trasmettergliele a parole. Un uomo a trentanni ha certe paure  a quaranta comincia a chiedersi altro a cinquanta non si chiede più niente… o chissà che cosa.

A proposito di questo di recente mi ha scritto l’attore Franco Branciaroli  che ha amato molto il film dicendomi di esserci si  immedesimato perfettamente. Ma parliamo di un uomo  che di vita ne ha attraversata parecchia.

 In effetti credo che per quella storia ci volesse la sensibilità di una vita più vissuta. 

Ci siamo lasciati senza rancore, almeno da parte mia. Ho trovato solo strano che successivamente lui insistesse tanto per firmare lo script di una storia che certamente non gli apparteneva affatto.

Abbiamo provato a dirglielo ma lui ha voluto comunque esserci anche dopo aver visto il film e certamente avendo notato quanto poco ci si potesse riconoscere. Così trovo coerente che ne prenda le distanze , mi stupisce solo che quando avrebbe avuto la possibilità di farlo ufficialmente non l’abbia fatto.

 

Ogni volta che un film italiano mi scontenta non posso fare a meno di sentirmi tra le vittime di un cinema che si è sempre illuso di essere all’interno di un discorso autoriale tramato alla base. Quale è la sua opinione in proposito?

Risposta non pervenuta

 

Come si è preparata a Mare nero? Che tipo di ricerche ha fatto prima di arrivare al primo ciak? 

Uno degli autori del soggetto, Marcello Siena mi ha messo in contatto con una sorta di virgilio che mi ha condotto in luoghi pubblici di scambi di coppie, per le strade di Roma e di Bologna. Ho passato molte serate ad osservare le auto che giravano e si facevano segnali, le coppie che trasmigravano da un auto all’altra, ho parlato con queste persone e mi sono fatta raccontare le loro storie, i desideri, le abitudini. Questa è stata la parte più interessante, come sempre. Sono stata nei locali di scambisti ed è lì che ho sentito questo senso esasperante di morte, una lentezza quasi rituale di gesti sessuali di uomini e donne senza volto. Corridoi bui e buchi dove guardare. E tutto in un silenzio  irreale. Dopo al bar ho parlato con le coppie che frequentavano il locale, ma le parole non davano soddisfazione. In realtà le motivazioni e le spiegazioni sono  troppo razionali di fronte a un mondo che naviga negli istinti.

 

Come ha scelto Luigi Lo Cascio e Anna Mouglalis per i ruoli di protagonisti? 

Mi piacevano per motivi diversi. Luigi è sempre stato legato all’interpretazione di personaggi  da bravo ragazzo, avevo intuito in lui anche parecchi lati oscuri ed è stato bello lavorare su quelli,Anna è un’attrice che ti dà tantissimo materiale su cui un regista può lavorare, è creativa e generosa. Con gli attori mi piace che siano anche i loro lati autentici a mescolarsi con quelli del personaggio, che si mettano in gioco il più possibile, che si compromettano sul piano personale. Ho capito che entrambi l’avrebbero fatto pur partendo da esperienze e tecniche diverse.

 

Tra le poche cose che ho apprezzato davvero durante la visione del suo film c’è senza dubbio la fotografia di Daniele Ciprì. Forse lei non sa che nella nostra redazione il lavoro di Ciprì e Maresco sul corpo del cinema è considerato sacro. Le andrebbe di raccontarci qualcosa del vostro rapporto sul set? Tra l’altro non è la prima volta che lei collabora con Ciprì.  

Io ho cercato di avere una fotografia fredda che mortificasse i colori e facesse risaltare i bianchi e i neri, i non colori, le ombre. Volevo quelle atmosfere allucinate e quei bianchi accecanti. Ho cercato di trovare una strada di luce che allontanasse dal realismo delle situazioni lavorando anche sui  colori e sui i toni della scenografia.

 

Come è nata la collaborazione con il compositore Shigeru Umebayashi per la colonna sonora di Mare Nero?

Ci siamo conosciuti a Tokyo per la presentazione di Angela nel 2002. Io avevo amato molto le sue musiche per In the mood for love ed è stato  divertente perché ai tempi, per le musiche di Angela l’avevo cercato disperatamente senza trovarlo. Al posto suo mi avevano presentato un altro compositore, Michael Galasso che effettivamente firma le musiche di quel film e io ero stata sempre convinta il tema del film fosse suo. Durante una serata  in cui lui aveva bevuto più del necessario io continuavo a lodarlo per quella musica e in particolare per quello splendido violino e lui mi confessò quasi in lacrime di non aver effettivamente scritto il tema di In the mood for love, il violino famoso che credo ricordino in molti era invece di Umebayashi. Finì  così la nostra collaborazione. Le musiche di Angela le fece poi Andrea Guerra .   Dopo qualche mese a Tokio durante la presentazione di Angela mi si avvicina un piccolo uomo e mi dice mi piace il tuo film e la musica assomiglia a qualcosa che ho scritto per un altro film. Era Shigeru Umebayashi. Da allora siamo sempre rimasti in contatto . La collaborazione con lui è il regalo più straordinario che ho avuto da un artista a questo film.

E’ stato dieci giorni a Roma durante il montaggio e ha composto una quantità enorme di musica  con un’ umiltà  una generosità e una passione che ho trovato raramente insieme a un talento così grande. Una delle poche gioie vere in un film che mi ha fatto soffrire parecchio.

 

C’è stato un momento, intorno alla metà degli anni ’90 in cui si parlava molto di registi come lei, Antonio Capuano, Mario Martone, Pappi Corsicato. Come ha vissuto quel periodo e cosa sopravvive a suo giudizio di quell’ondata?

Per me quelli sono stati anni di grande vitalità, di entusiasmo e ricerca. I nomi che hai citato sono tra i registi italiani che mi piacciono di più e certamente sento simili per sguardo e tematiche. La guerra di Mario è stato uno dei pochi film  italiani dello scorso anno che mi ha fatto pensare di aver visto del cinema.  La differenza sostanziale rispetto ad ora è che c’era in quegli anni ancora la sensazione che si potesse fare cinema e non solo film, che si potesse ancora osare e non avere l’obbligo di confezionare un prodotto paratelevisivo. Penso anche ad altri autori che non hai citato come Beppe Gaudino di cui ricordo un film bellissimo Giro di lune tra terra e mare, penso che oggi qualsiasi produttore difficilmente potrebbe solo pensare di produrre qualcosa del genere. Oggi quella libertà si è totalmente perduta stritolata dall’utopia  degli incassi ( che spesso non ci sono comunque) e, quel che è più grave, da una sorta di censura preventiva e sottile operata su argomenti e sceneggiature. Poco tempo fa  ho rivisto Mon frère, un film di Patrick Cherau che racconta il riavvicinamento forzato di due fratelli in seguito alla malattia di uno dei due. Un film che racconta in sostanza il degrado lento e inesorabile di un  corpo  e riflettevo sul fatto che in Italia non si sarebbe mai potuto fare un film del genere. Il corpo e tutto quello che lo riguarda, dal sesso in tutte le sue manifestazioni alla malattia, è tabù. O deve essere raccontato e ridotto in rassicurante clichè. Non si può raccontare la violenza, non si può  mostrare mai nulla che sia  vero, reale , doloroso, umano. Il lato oscuro della realtà, la passione deve scomparire a favore di una visione addomesticata e ipocrita. Sempre più spesso quando mi capita di vedere un bel film, la considerazione che faccio è : in Italia non si sarebbe mai potuto fare. E non è davvero una considerazione consolante.

 

Come vede lo stato attuale dell’industria cinematografica italiana? Quali sono i suoi rapporti con il sistema produttivo? 

Come ti dicevo credo che viviamo in un periodo di fortissima censura. La cosa grave è che è così scontata che viene considerato normale. Ormai i criteri di realizzabilità sono criteri televisivi e quindi tutto deve essere uniformato in quel senso. Le storie e il modo di raccontarle devono essere quelli. Ogni cosa che tenti di uscire da questi binari viene bocciata in partenza. Ci sono ancora voci fuori dal coro, penso a Sorrentino che ha fatto un film bello su un personaggio sgradevole, penso a Garrone che nel suo ultimo film ha raccontato una storia veramente estrema, ma sono sempre più rarità in un contesto di melassa e  rassicuranti sceneggiature paratelevisive.

Io ho avuto certamente un percorso anomalo nel panorama produttivo italiano: inizio da indipendente con i miei primi lavori, passo per una produttrice audace e allora sconosciuta, Donatella Palermo che ha però l’intuito di  farmi realizzare Tano da Morire dopo i rifiuti di tanti che poi si sono pentiti, incontro per il mio secondo film un classico truffaldino che mi tortura per anni , poi il fortunato connubio con Rita Rusic che resta nella mia esperienza il rapporto migliore e più gratificante da regista a produttore e infine incontro Riccardo Tozzi e Cattleya per Mare Nero.

Penso di aver  sperimentato parecchie strade e possibilità produttive, ma tutto sommato direi che l’unica cosa che mi è mancata è stata la possibilità di un lungo e solido “matrimonio”

Con Rita Rusic ci sarebbe stata l’opportunità di continuare, se lei non avesse preso altre strade.Eravamo molto diverse ma incredibilmente complementari e ci univa una grande passione per quello che facevamo. Credo che questo sia il vero segreto di un buon rapporto  con un produttore. Io ho bisogno di qualcuno che mi assecondi e si fidi molto ma che al momento giusto possa dirmi anche no, qualcuno con cui avere un rapporto di scambio. L’unica cosa che  non sopporto è la mancanza di passione, e l’approssimazione .

Al momento sono tentata di cercare all’estero i produttori per il mio prossimo film.

 

Le sue incursioni nel campo della videoarte sono state apprezzate da critici di molto peso, un nome su tutti è quello di Teresa Macrì. Ha altri progetti in questa direzione?

Ci penso spesso e ho qualche progetto in quel senso. Tempo fa avevo iniziato a preparare un’istallazione che raccontava contemporaneamente presente passato e futuro di una donna. Io ho lavorato molto con il video,  con la fotografia e  mi piace mescolare i linguaggi. Il video mi dà  quella libertà che facendo un film devi filtrare attraverso molte mediazioni 

 

Grazie.