Bregola ha scritto un libro che ha pretese, è intrattenimento sì, ma
destinato a lettori forti, già tenuti in ostaggio dalle stesse domande
insolubili che l’autore ossessivamente si pone. Il senso della letteratura,
l’urgenza inutile di questo mezzo onanistico e violento, il ruolo del
giovane intellettuale che non si piega allo studio legale o alla fabbrica di
polistirolo, che combatte una battaglia disperata sempre sul filo
dell’indigenza economica.
Il
fisico dell’autodidatta è debilitato (insonnia, infiammazioni alle
vie urinarie) da un cervello che brucia senza requie, sempre impegnato a
deframmentare e a ricodificare i messaggi esterni che non scivolano mai
addosso, ma scavano ferite alleviate da sedativi che regalano speranze e
nuovi disagi. La pubblicazione di un libro, le presentazioni in giro per
l’Italia, le prime timide frequentazioni cultural mondane spesso deludenti
si intersecano con le problematiche di sempre, una vita di coppia logora,
adulterio ad alta concentrazione di complessi di colpa, la maledizione del
proletariato, la precarietà lavorativa, i genitori che iniziano ad
assomigliarci pericolosamente e ad apparire nella loro fragilità.
“Mio padre
conosce l’infelicità di guardare indietro nel tempo. Non è mai stata la
persona che appiattisce i ricordi in una nostalgica beatitudine.”
La
figura paterna percorre dolorosamente le pagine. Così è per il Dies Irae
di Genna del come per il Lunar Park
di Ellis, come se l’avanzare del tempo ponesse l’impellenza di
gestire da scrittori prima che da esseri umani, l’insostenibile
trauma della presenza di un altro adulto così simile a noi, destinato però a
sfaldarsi davanti ai nostri occhi.
La
costruzione di questa operetta morale di autofiction poggia su una
estenuante ricerca filosofica della verità . È battaglia destinata
all’insuccesso, i mulini a vento non sono mostri identificabili, ma danno
sberle pesanti, il territorio frana sotto i piedi e nulla di assoluto e di
concreto finisce nella rete dell’io narrante, Giovanni Costa, giovane e
brillante giurisprudente scoppiato.
“Per uno
scrittore è meglio apprendere la verità e scriverne o è meglio tentare di
fare la verità scrivendo?”
Viverla facendo a botte con l’etica e la coerenza o recuperarla esanime per
venderla liofilizzata in busta o in bomboletta spray al lettore?
Tracciare i confini tra Davide Bregola e Giovanni
Costa è esercizio inutile, buono come ultima domanda in caso di
presentazione fiacca in qualche biblioteca di provincia. Davide Bregola
confina a nord con un moderato disincanto, a est con un’indignazione
prossima all’incazzo, a ovest con un profondo disgusto e a sud con una sana
curiosità e un’onesta voglia di aggiungere qualcosa di nuovo e importante
nella letteratura italiana. Le sue coste frastagliate sono battute da venti
malsani e bagnate da mari inquinati e tempestosi.
Ti
spiazza quando racconta con finta ingenuità che riesce a scrivere/descrivere
solo fatti realmente successi nella sua vita. Candidamente ammette che un
vero scrittore deve sapere fare altro. Il suo amico burattinaio costruisce
pupazzi e fioriscono favole, lui si impantana tra vissuto e surrogato
letterario, una medicina il cui foglietto illustrativo è meglio non leggere
e bruciare. Tali e tante sono le controindicazioni e gli effetti
indesiderati descritti. Eppure le pagine anche se dolenti filano a
meraviglia e giunto in fondo ti prende la fantasia di rileggerlo da capo. A
ciclo continuo.
Il
lavoro di Bregola non si esaurisce in questo romanzo, di cui alcuni estratti
sono presenti in rete. Bregola acquisisce materiale, carte processuali,
mette agli atti prese di posizione, trame, indaga, cataloga reperti lasciati
da altri narratori, lo fa su Vibrisse,
lo fa
semplicemente guardandoti negli occhi, ma solo per pochi secondi. Poi
distoglie lo sguardo come se pesasse mentalmente le reazioni e le congetture
di chi gli sta davanti a parlare di letteratura e di altri vitali dettagli.
Saverio Fattori
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