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ULTIMATES N° 12 |
L’avevamo promesso all’interno dello speciale Ultimate Marvel, ed allora, puntuali come sempre, ci catapultiamo nell’universo marveliano nel folle tentativo di recensirne ogni singola uscita (che Odino ce la mandi buona). Il primo albo sacrificale è l’ultimo in casa Ultimates: il n° 12, terzo capitolo della miniserie I SEI. Doveva essere, secondo programmi, l’atto finale di quest’avvincente storia ma quel bischero di Brian M. Bendis s’è accorto strada facendo che sei albi non gli sarebbero bastati, e vabbè, vorrà dire che aspetteremo pazienti l’uscita del n° 13. È dura la vita del fumettaro, sempre nell’attesa di un albo che mai lo renderà satollo, ma è ancor più dura, credetemi, per tutti coloro che seguono Ultimates. Da una parte quel bradipo di Hitch che, con la sua lentezza nel disegnare, costringe la Marvel Italia a pubblicare miniserie come I SEI (e in passato Ultimate War) sotto la testata Ultimates, perdendo irrimediabilmente la continuity originale che attualmente è ferma ai numeri: 1/4 e 7/9. Dall’altra, quella proprietà mai sopita che caratterizza la serie, nonostante i lodevoli sforzi di Millar (lo sceneggiature di ruolo), al punto da renderla indigesta per alcuni. Mi riferisco alla latente dimensione guerrafondaia, facente leva su un imbarazzante patriottismo, riscontrabile in non poche pagine dal respiro un po’ troppo fallico. Personalmente penso che un certo distacco nella lettura non dovrebbe mai mancare, ed è forse questa l’attitudine necessaria per sorridere con obbiettività, a battute come quella che Capitan America rifilò (nel n° 8) al capo dei Chitauri: credi che questa lettera significhi Francia? Per tutti gli altri irriducibili refrattari, v’è sempre l’ancora di salvezza che ogni buon fumetto, ed Ultimates lo è, deve saper dare: la possibilità di parteggiare per i “cattivi”, e soprattutto, la possibilità di leggere la miniserie in questione. Alla notizia che lo sceneggiatore de I SEI sarebbe stato Bendis, venne spontaneo pensare a quanto e come la sua proverbiale sensibilità psicologica avrebbe mutato l’universo Ultimates. Per carità, nessuno stravolgimento particolare, ma delle diversità d’approccio sono presenti. Il personaggio destinatario di particolari attenzioni (non il solo!) è in questo caso Nick Fury, il capo dello S.H.I.E.L.D. Chi, almeno una volta, di fronte a certe parole o ad una particolare tavola, non ha desiderato che qualcuno, o qualcosa, prendesse la cresta che Nick palle d’acciaio si ritrova su quella testaccia nera senza un occhio, per farci un bell’involtino primavera? Tutti credo, e comunque, in molti avranno bramato quello che possiamo tranquillamente definire: un sano e liberatorio momento catartico. In questa miniserie, sotto la penna di Bendis e toccato dai riflessi di un uomo comune, Nick Fury non ci appare più solo come un macho sempre sicuro di se stesso, e si, perché anche il buon Nick fa cazzate, viene ridicolizzato dal presidente degli USA (e di brutto!), perde spesso le staffe e gli fuma sovente il cervello. Uno dei più duri e puri, questa volta non combatte solo per il proprio paese ma anche per la poltrona dove poggia il suo bel culetto. Perfino il suo prode Capitan America non lo può vedere, avendo intuito che i nemici che presto dovrà affrontare, sono i figli di quella sperimentazione genetica che ha prodotto anche l’amato soldatino d’America, una sperimentazione avallata e gestita da Fury. Bendis, ha sapientemente agito sulla dimensione virile della serie, smussandone i toni e scoperchiando le debolezze (femminili?) del personaggio più maschile. E il modo in cui ha tratteggiato un personaggio femminile come zia May, con attributi decisamente maschili, fa supporre senza ombra di dubbio che sia stata un scelta cosciente. Entrando ora nel merito del dodicesimo numero...un breve accenno su quanto accaduto in precedenza: Gli Ultimates, sotto la direzione di Nick Fury, hanno catturato ed imprigionato contro legge personaggi poco raccomandabili del calibro di: Norman Osborn (Goblin), Dr. Octopus, Kraven, Electro e l’Uomo sabbia. Chi sono? Sono i figli di una sperimentazione finanziata dal governo che invece di produrre amici ha creato nemici, meglio conosciuti come terroristi (oh! Scusate, pensavo a Bin Laden ma forse sono io che....). Naturalmente la prigionia non è il massimo della vita per chi è costretto a vedere il mondo a strisce senza stelle, difatti, grazie a quel lestofante di Octopus (nelle imperdibili tavole in cui riesce a liberarsi, le parole ammaliano e i disegni pugnalano alle spalle) i cinque riusciranno a fuggire, e quell'invasato di Norman Osburn potrà perseguire la sua ossessione: il ragnetto Parker. Questo, ed altro ancora, accade ai n° 10/11. Nel dodicesimo, naturalmente assisteremo alla resa dei conti ma avremo anche definitiva risposta alla domanda: perché se i “cattivi” sono 5, la saga è intitolata I SEI? Curiosità a parte, anche questo è un albo segnato dal Bendis’s touch, e lo è soprattutto in due momenti precisi (anche se altre connotazioni interessanti meriterebbero menzione). Il primo, situato circa a metà albo, è il chiarimento conclusivo tra Capitan America e Nick Fury. Bendis, con poche parole ma calcolate, non solo risolve il conflitto tra i due, non solo ci fa capire che Fury ha delle colpe da espiare, ma riesce sorprendentemente a rimboccare la marcia della tensione e ripartire a razzo, chapeau. Il secondo, vero ed indiscusso capolavoro psico-emotivo, il Woody Allen dei fumetti lo compie nelle ultime due tavole di questo splendido numero. Dopo aver rosolato a dovere il lettore, soprattutto grazie alla descrizione del rapporto deviato che Osborn ha con Spider-man (spesso chiamato: ragazzo mio), ti serve sul piatto uno di quei momenti carico di tensione e significati, dove ogni scelta e azione può rimandare ad un legame, un rapporto, una vita che può essere segnata dall’amore o dall’odio secondo ciò che di lì a poco accadrà, e che noi, ahimé, leggeremo nel prossimo numero. Grande Bendis. Ma altrettanto sorprendenti sono le matite di Trevor Hairsine, le sue doppie splash-page sono stupende, lo sguardo ci sguazza dentro come se fosse un mare infinito, rispetto a Hitch perde il confronto sulla plasticità ed espressività dei volti, ma forse, ha in più un certo non so che di folle nella costruzione della pagina. Decisamente Jazz lo stile di Hairsine, come quando Capitan America cerca di convincere Parker che zia May si trova al sicuro, il montaggio visivo scelto stimola la lettura, complicandola da un lato ma rendendola più frizzante dall’altro. In ogni caso, vuoi per la scrittura o per via delle matite, il volo sulle pagine Ultimates è sempre alto. Nell’attesa che Millar e Hitch sfornino finalmente la nuova saga non poteva andare meglio. Bon voyage super-lettori.
Davide Catallo |
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