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GREGORY DAVID ROBERTS: Shantaram (Neri Pozza, pp. 1178, € 22,00; traduzione di Vincenzo Mingiardi) |
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È un lungo, emozionante romanzo d’avventure, una storia che sembra pensata appositamente per il grande schermo e che al cinema in effetti approderà tra non molto (regia di Peter Weir, protagonista Johnny Depp), ma Shantaram è prima di tutto la vicenda fortemente autobiografica di un uomo che è diventato un caso letterario solo dopo numerose traversie personali. Scritta in modo eccellente, cioè con una perfetta padronanza del ritmo, del respiro dei singoli episodi che la compongono e dei molteplici personaggi che in essa si muovono (dalla guida per turisti Prabaker all’enigmatica Karla, da Johnny Cigar al potente boss Khaderbhai, fino all’ultima delle comparse). Dura come Educazione di una canaglia di Edward Bunker, con qualcosa di Conrad e Melville dentro. Negli anni ‘70, l’australiano Gregory David Roberts, nato a Melbourne nel 1952, laurea in filosofia, militanza nel movimento studentesco, era marito e padre di una bambina. Il matrimonio si sfascia, sua figlia muore, lui si ritrova eroinomane e, dopo una rapina a mano armata andata male, condannato a 19 anni di galera. Evade rocambolescamente dal carcere di Pentridge nel 1978, diventa un fuggiasco che attraversa paesi e continenti con un passaporto falso in tasca e una chitarra a tracolla. A Bombay alloggia in uno slum sorto a ridosso del moderno e scintillante World Trade Centre. Convive con gli ultimi della terra, e per loro si improvvisa medico, allestisce un ospedale di fortuna, salva vite umane. Non basta: l’uomo che ora tutti chiamano Lin, o anche Shantaram (in lingua hindi, “uomo di pace”, o “uomo della pace di Dio”) si lega alla mafia indiana che impera sull’ex colonia britannica, fa l’attore a Bollywood, si ritrova in Afghanistan, tra i guerriglieri mujaheddin. Sempre in fuga, ferito, ripara dal Pakistan in Europa (a Milano suona nella metropolitana, in Germania fonda un gruppo rock), viene catturato a Francoforte nel 1990 ed estradato in Australia. È in cella che Roberts si dedica seriamente alla scrittura. Attinge al proprio travaglio esistenziale di individuo senza patria e senza famiglia, riempie pagine e pagine di ricordi ora lieti, più spesso amari, per quello che diventerà il suo grande capolavoro. “Ho impiegato molto tempo e ho girato quasi tutto il mondo per imparare quello che so dell’amore, del destino e delle scelte che si fanno nella vita. Per capire l’essenziale, però, mi è bastato un istante, mentre mi torturavano legato a un muro.” Nelle oltre mille pagine di Shantaram, l’India non è una cartolina, una foto in bella mostra sul listino dell’agenzia di viaggi sotto casa. Ci sono topi e cani randagi che al buio aggrediscono i passanti, umidità, odori di spezie mescolati alla puzza di merda delle latrine all’aperto, ai gas di autobus, taxi, camion su Mahatma Gandhi Road, bambini che giocano nella spazzatura, catapecchie costruite con canne di bambù, stracci, fogli di plastica. Bombay: la meraviglia che nasce dalla fusione di orrore e poesia, dagli sforzi che ogni giorno quella porzione di umanità (oggi ufficialmente 12 milioni di abitanti, in realtà molti di più) compie per sopravvivere nella miseria estrema. Traffici: armi, droga, prostitute (tra le tante mete privilegiate dagli uomini d’affari c’è il bordello della misteriosa Madame Zhou), schiavi bambini, documenti falsi. “I commercianti nei chioschi sulla strada vendevano contraffazioni di Lacoste, Cardin e Cartier con una certa impudente eleganza, i taxi parcheggiati lungo la strada accettavano mance per inclinare gli specchietti retrovisori in modo da non vedere gli atti illegali o proibiti che avvenivano nei sedili posteriori, e un buon numero dei poliziotti che svolgevano scrupolosamente il proprio dovere nella stazione di polizia dall’altra parte della strada avevano versato cospicue bustarelle per ottenere quel posto redditizio nel centro della città.” Leggere questo libro significa entrare in un mondo a parte, abbandonarsi alla stessa corrente che ha modificato il modo di pensare di chi l’ha scritto. Vediamo luoghi e facce con gli occhi del narratore: ogni angolo, ogni sguardo, perfino ogni suono diventa reale, si incunea nei nostri ricordi. È la forza di personaggi come Abdul Ghani, criminale che sentenzia malinconicamente: «Il mondo è governato da un milione di malvagi, dieci milioni di stupidi e cento milioni di vigliacchi» o di Lisa, la puttana tossicomane che in un delirio parla a Lin della fine di Annibale, il condottiero che attraversò le Alpi con un esercito di trentamila uomini e si fermò a combattere in Italia per sedici anni. È la magia della letteratura pura, del racconto-fiume che scioglie qualsiasi riserva e conquista fino alla fine (gli inganni delle brutte copertine: personalmente paventavo di imbattermi in un melenso romanzone d’amore con fondale esotico). Questo libro è toccante, profondo, mai furbo. Un esempio? Facciamo tre: le apparizioni dell’orso Kano e dei suoi due domatori; il rapporto che si instaura tra il protagonista e il piccolo Tariq, nipote di Khaderbhai, quindi Lin che si stona di Ganga-Jamuna, una miscela di hashish e marijuana, insieme ai pezzi da novanta della mafia e poi domanda a costoro: «perché i buoni soffrono molto più dei cattivi?»
(N.G.D’A.) |
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