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TOM WOLFE: Io sono Charlotte Simmons (Mondadori, pp. 777, € 22,00; traduzione di Marta Matteini) |
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L’evento si ripete più o meno ogni otto-dieci anni: Tom Wolfe manda in libreria
un nuovo romanzo e la marea sale, le riviste più vendute del pianeta fanno a pugni per avere l’uomo vestito di bianco in copertina, i decani della critica letteraria hanno un’erezione senza ricorrere al Viagra o al Cialis, gli Studios di Hollywood si interessano alla trama. L’uomo di Richmond, il grande vecchio del ‘New Journalism’ tira ancora. Meglio se, a sorpresa, questa volta ha scelto di ignorare impudentemente la sua età anagrafica (74 primavere) al fine di proiettarsi tra i giovani di un prestigioso quanto immaginario campus americano. La Dupont University, fondata più di un secolo fa in Pennsylvania da Charles Dupont, “re della tintura artificiale e collezionista d’arte, senza nessuna parentela con i du Pont del Delaware” è la solenne cattedrale della cultura universitaria americana, il luogo in cui approda la giovane, timida Charlotte nata e cresciuta tra i bifolchi di Sparta, Alleghany County, sulle colline occidentali del North Carolina. Laggiù, ci dice Wolfe, “Non ci sono centri commerciali, cinema e neanche agenti di cambio.” Laggiù, nei pressi di quel New River forse scoperto da un cugino di Thomas Jefferson e ritenuto dai paleontologi tra i due o tre fiumi più antichi del mondo, c’è la Provincia perduta, terra che ha tra le sue poche risorse gli alberi di Natale, i fanatici del golf e il turismo estivo. Charlotte Simmons, figlia di povera gente che abita in una piccola casa di legno al 1709 di Country Road, Sparta, ha vinto una borsa di studio alla Dupont e presso i suoi concittadini è diventata una star. È andata a Washington e ha cenato alla Casa Bianca con il Presidente. È una ragazza brillante e anche molto carina che tuttavia non sa quasi nulla del mondo e degli uomini. Vergine in tutto e per tutto (l’ultima vergine americana, sembra suggerirci l’autore), impreparata ad affrontare la selva oscura di una vita sostanzialmente diversa da quella descritta nei libri che ha divorato. Non sa, Charlotte, che alla Dupont i ragazzi e le ragazze della sua età si danno parecchio da fare. Non sa che nel bosco che circonda quella fortezza tutta guglie, torri e torrette, un anziano governatore venuto in visita dalla California è stato sorpreso nottetempo da due studenti ubriachi (Vance e Hoyt, quest’ultimo personaggio chiave della storia) mentre saggiava personalmente le doti orali di una signorina in shorts e maglietta.
Charlotte Simmons è come Biancaneve. Forse più ingenua, azzardiamo.
Charlotte è una che non la dà. Charlotte è un altro straordinario
personaggio usato dallo scrittore de Il Falò delle
vanità e di Un uomo vero per parlarci dell’America alla
sua maniera. Ancora una satira, perché Wolfe è, sia chiaro, un grande autore
di satire o, meglio, tra i quattro grandi autori di satire che l’America
contemporanea abbia donato alla letteratura mondiale. È in ottima compagnia,
dal momento che gli altri tre sono, in ordine di apparizione,
Thomas Pynchon, Bret Easton Ellis e Chuck
Palahniuk. Un gigante tra i giganti, uno scrittore che ha l’enorme pregio di
non annoiare mai i suoi lettori, neppure quando si lancia in dettagliate,
quasi maniacali descrizioni dell’ambiente sportivo americano (qui è il
basket, con
“Sesso, sesso! Si respirava ovunque, insieme all’azoto e all’ossigeno! Tutto il campus era sempre pronto, inumidito e lubrificato! Si ingozzava di sesso! In un arrapamento continuo!” Io sono Charlotte Simmons spara potentissime, impagabili bordate contro il vizio, la falsa etica del politically correct americano. È il grottesco recuperato (da una tradizione che oggi sembra largamente affossata proprio dal politicamente corretto) a beneficio di lettori disposti a partecipare al gioco di un’ironia feroce che non risparmia neri, intellettuali ebrei, divinità dello sport, futuri pilastri della società statunitense. Un romanzo acuto e divertente. Che altro vi aspettereste da Tom Wolfe? (N.G.D’A.) |
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