JAMES CRUMLEY: L’ Ultimo vero bacio (Einaudi, pp. 312; traduzione di Luca Conti) |
Il nome non vi sarà nuovo, e intorno ad esso avrete sicuramente già sentito gli apprezzamenti di diversi addetti ai lavori. Critici letterari di tutto rispetto come Jean-Marc Laherrère, oppure scrittori (tra i tanti, Carlo Lucarelli) hanno ammesso da tempo James Crumley nella hall of fame in cui brillano le stelle di Jim Thompson, Edward Bunker, Elmore Leonard, James Ellroy. Tutto vero. Il texano nato a Three Rivers nel 1939 da una famiglia modesta e cresciuto nei campi di cotone (primo romanzo: One to count the cadence, pubblicato nel 1969) può vantare a buon diritto un posto tra i più grandi autori americani. Per L’Ultimo vero bacio, apparso per la prima volta in Italia nel 1978 all’interno della collana Il Giallo Mondadori e oggi riportato alla luce da una nuova traduzione integrale, migliore rispetto alla precedente, si parla addirittura di capolavoro dentro/fuori dal genere, di un’opera che ha saputo iniettare fresca linfa all’hardboiled rivoltandone i canoni come un guanto. Vero anche questo. La storia picaresca, comica, amara che ha dato il via al ciclo del detective C. W. Sughrue (poi proseguito con The Mexican Tree Duck, del 1993 e Bordersnakes, del 1996), ha un impianto dalle particolarissime soluzioni narrative che racchiude tutte le possibilità offerte al poliziesco nel momento in cui il genere stava per varcare la sua linea d’ombra. Fin dall’inizio appare evidente come Crumley sia riuscito ad intrecciare tutte le ramificazioni della storia senza perdere la chiave delle ragioni spettacolari di base: Sughrue è alle costole di Abraham Trahearne, simpatica figura di poeta beone che ama visitare i bar di mezza America accompagnandosi a cani alcolizzati. Trahearne è uno che dice: "Le storie sono come istantanee, figliolo, immagini che immobilizzano il tempo, dai margini nitidi e ben definiti". E: "Così sono le donne, ragazzo. Non la capiscono questa necessità di muoversi. Da' loro una caverna riscaldata e trippe d'antilope a pranzo e a cena, e chi le muove più di casa?" Quando l’investigatore privato trova questo personaggio squisitamente bukowskiano (che nel frattempo ha stretto amicizia con un bulldog di nome Fireball Roberts), una donna gli chiede di mettersi sulle tracce della figlia scomparsa dieci anni prima. Sughrue è stanco, vorrebbe fermarsi a riposare, accetta riluttante un incarico assurdo, pagato “ottantasette dollari, due birre e un sorriso”: Betty Sue è andata via da casa. Forse a San Francisco, forse altrove. Qualcuno giura di averla vista in un film porno, altri la danno per morta e sepolta. Betty Sue, la ragazza che fin da piccola aveva mostrato doti d’attrice, la boccuccia sexy che tirava fuori parole pronunciate da Marilyn Monroe. Aveva tutti i numeri per sfondare a Broadway o a Hollywood. Un angelo, oppure una puttana, come si dice in questi casi. Un’adolescente che voleva vedere il mondo oltre Sonoma, California, darsi delle possibilità...Niente di nuovo? Al contrario, perché qui siamo al cospetto di uno di quei romanzi che per stile, personaggi, intreccio, finiscono per imprimersi nella mente dei lettori lasciando (garantisco) una traccia indelebile. Se le strutture classiche risultano prosciugate, isterilite, Crumley compie una magnifica operazione che parte con la robusta manovra d’ancoraggio alla dinamicità d’insieme delle fonti e si espande verso una poetica forte e diretta, un blow-up della detective story avvolto da un alone di esotico surrealismo. “Avrei dovuto aspettarmelo, che la City of Lights sarebbe stata piena zeppa di cani da bar – cani ballerini e cani canterini, persino segugi in preda alle allucinazioni – e quindi fu solo tre giorni più tardi, mentre tracannavo bicchierini assieme a un barboncino rosa a Sausalito, che venni a sapere del bulldog di Sonoma e della sua passione per la birra.” Falliti americani. Orfani del fottuto Grande Sogno. Gente che ha perso l’innocenza nel grande pagliaio della dura realtà. Meccanici, avvocatucci di provincia, insegnanti di recitazione, collezionisti di hard d'epoca, hippies rimasti sotto acido molto dopo il tramonto dell'Estate dell'Amore, infermiere basse, rotondette, col naso a patata e le ginocchia in dentro (“ma sexy”, sostiene Sughrue). C’è il whisky. C’è la birra. Ci sono i rancori sepolti e le fissazioni (il padre di Sughrue, apprendiamo, era convinto di essere un comanche e andò a vivere in un teepee, poi spedì suo figlio nel deserto a caccia di visioni). Interessante e veritiera l’osservazione del traduttore Luca Conti in appendice: “Tutti i personaggi del libro saltano fuori dalla pagina con una plasticità che non teme confronti nell’intera storia dell’hardboiled e del noir, paragonabile solo a capolavori quali Meridiano di sangue di Cormac McCarthy.” Crumley rielabora, ricuce, mastica la sintassi di Chandler e ne aggiorna le scansioni drammatiche, trasformando i modelli della propria formazione in illuminazione espressiva. Memoria autobiografica e immaginario entrano in interferenza, schegge dell’iconografia poliziesca entrano in contatto con comportamenti e oggetti del quotidiano, dando così origine a mutazioni all’interno della forma letteraria ospitante. Con il detective Sughrue, il viaggio a caccia di fantasmi sulle autostrade e superstrade del West è un’esperienza che contempla la parodia di forme abusate, quindi la costruzione di quella linea personale che, a ventisei anni dalla sua prima uscita, riconferma L’Ultimo vero bacio tra le opere letterarie più belle di tutti i tempi.
Nino G. D’Attis |
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