LESTER BANGS: Guida ragionevole al frastuono più atroce (Minimum Fax, pp. 450, € 16,50; traduzione di Anna Mioni) |
Veloce, mi sembra quasi di vederlo. Il tempo di ingollare una birra, sparare fuori un rutto abominevole e urlare «One, two, three, four» davanti al foglio bianco. Lui, proprio lui. Il ciccione scoppiato espulso dalla redazione di Rolling Stone perché mostrava scarso rispetto per gli artisti. Il tizio che da bambino si era esercitato scrivendo sequel alle storie di Verne, Stevenson e Dumas. L’uomo che amò insieme a pochi altri al mondo (ah, ma nel gruppetto di gente votata al ricovero coatto ci sono anch’io!) le quattro facciate di Metal Machine Music di Lou Reed e che non riuscì mai a capacitarsi di come dopo gli Yardbirds Jimmy Page avesse potuto dar vita ai Led Zeppelin. Uno dei grandi protagonisti, accanto ad Hunter S. Thompson, Nick Tosches, Tom Wolfe, Richard Meltzer, della stagione che offrì linfa nuova al giornalismo: l’eresia elevata a forma d’arte, il metodo scaricato nel cesso, le parole sfrondate, denudate, messe a pecora su un pavimento di situazioni limite. “Forse siete convinti che fare il giornalista rock famoso che entra a sbafo ai concerti sia una ficata e basta, ma al contrario di quello che si dice in giro non è tutta pacchia e cuccagna. Sì, certo, ti becchi gratis i dischi, i viaggi, le pischelle e le magliette, ma ogni tanto devi anche esprimere un briciolo di creatività – p.es. facendoti venire nuove idee per un articolo – il che a volte implica impegnarsi in un lavoro vero e proprio.” Come quella di John Belushi, anche la vita terrena di Leslie Conway Bangs, in arte solo Lester Bangs, è stata molto breve. Eppure, la mole di pagine prodotta, i progetti avviati e interrotti, persino questa raccolta di scritti curata dall’amico Greil Marcus, ci fanno pensare ad un supereroe sopravvissuto alla morte del rock e al sacrificio di tutte le stelle sull’altare della marchetta definitiva. “Non è mica un vip, Lester, è anzi l’outsider perenne, ostile a qualunque door policy e buttafuori” scrive Wu Ming 1 nella prefazione all’edizione italiana. Innamorato dei dischi (pare che una volta abbia onorevolmente salvato il Metal Box dei P.I.L. dal rogo che gli stava bruciando la casa), realista nell’approccio ai musicisti: uomini, non divinità da idolatrare con devozione fanatica. Trovava lecito, se non proprio doveroso, bersagliare soggetti che, invischiati oltre misura nel grande circo del rock, avevano finito col perdere qualsiasi contatto con i loro simili. Ecco perché, rispetto a Bowie, gli andava più a genio Iggy Pop: “È l’artista più intenso che io abbia mai visto e quell’intensità gli viene da una compulsione omicida che in passato l’ha reso anche l’interprete più pericoloso al mondo: si tuffava in terza fila, si tagliava coi vetri rotti sul palco e poi ci si rotolava sopra, ingaggiava risse verbali e a volte fisiche col suo pubblico.” E ancora più grande fu presumibilmente la sua meraviglia quando si trovò faccia a faccia con gli antidivi Clash: “(...) ho capito che, al contrario della maggior parte dei gruppi che ho incontrato, non se la tiravano, non erano fissati con il loro ruolo da divi, anzi, gli interessava davvero conoscere i loro fan di persona e senza sussiego.” Nei riguardi della musica, Lester Bangs aveva conservato una buona dose di entusiasmo adolescenziale. Lo testimoniano pezzi come l’iniziale Psychotic reactions and carburetor dung – una storia di questi tempi oppure l’esilarante affresco beatnik di John Coltrane è vivo e lotta insieme a noi, racconto bevuto con barriti di sax, Jack Daniel’s e vecchia padrona di casa che urla: “Ehi, tu, lì dentro! Smettila con quel frastuono e apri subito questa porta!” Chi ebbe la fortuna di vederlo all’opera, di berci insieme qualcosa o anche solo di leggerlo mentre girava ancora da un concerto all’altro, traccia il ritratto di uno scrittore onnivoro (“Negli ultimi anni di vita Lester cercò di scrivere su qualsiasi argomento” afferma Marcus), di un ragazzo spiritoso e sensibile. Ubriacone e drogato, certo. E insolente, più di molti artisti costruiti a tavolino dalle case discografiche, più di quella Music Television che si trovò a debuttare il 2 agosto 1981, giusto otto mesi prima della sua dipartita. Provate a leggere questo libro fingendo che il video e il compact disc non abbiano ucciso un vecchio modo di fruire la musica, che la clippizzazione del mercato discografico (la definizione è di Domenico Baldini, autore del saggio Mtv, edito da Castelvecchi nel 2000) non sia mai avvenuta. Prendetevi un po’ di tempo e mettete sul piatto la vecchia copia in vinile di Raw power degli Stooges o magari il pericoloso Metal Machine Music. Sono sicuro che il verbo di Lester vi raggiungerà meglio e più in fretta, come la famosa carezza in un pugno.
Nino G. D’Attis |
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