PAOLO ROVERSI: Bukowski scrivo racconti poi ci metto il sesso per vendere (Stampa Alternativa, pp. 118, € 10,00) |
Finalmente ho trovato il contesto giusto per confessare un paio di misfatti commessi quasi simultaneamente un bel po’ di tempo fa (e dunque caduti in prescrizione?). Signor giudice, ho sulla coscienza due copie di L’Amore è un cane che viene dall’inferno regalate a due donne diverse, per motivi diametralmente opposti: alla prima per togliermela di torno, alla seconda per metterla a conoscenza dello scompiglio sentimentale/ormonale causatomi dalla sua improvvisa comparsa nella mia vita. Solo adesso rimuovo un gran peso e chiedo scusa alla seconda bellissima creatura (alla prima no, poiché nel frattempo si sarà di sicuro rifatta il trucco, la scorta di kleenex e il parco amicizie). Da allora, niente Bukowski per me: avevo già letto e riletto tutto e le ristampe, le raccolte postume, le pippe filologiche a cura di Tizio e Caio non avrebbero aggiunto davvero niente ad un’esperienza cominciata a quattordici anni con un furto in libreria di Storie di ordinaria follia – Erezioni, eiaculazioni, esibizioni. Ora arriva un piccolo libro su Buk, dichiaratamente lontano dalla biografia esaustiva, scritto da un affezionato lettore che precisa di averlo conosciuto soltanto dai suoi libri e dalla voce di Fernanda Pivano, storico nume che ha assistito Roversi in corso di stesura. Un bignamino con l’anima, nato dall’esigenza di approfondire un discorso cominciato nel 1997 (sempre su Stampa Alternativa) con Seppellitemi vicino all’ippodromo così che possa sentire l’ebbrezza della volata finale, agile raccolta di frasi più o meno celebri del nostro. Si rende omaggio allo sbevazzone che raggiunse tardi, molto tardi la gloria e la grana, una casa a San Pedro, California e una BMW nera parcheggiata in garage. Alla soglia delle cinquanta primavere (che nel suo caso diventano autunni), ci pensate? In questo momento il commercialista di Dan Brown sarà sicuramente impegnato in un’orgia a base di fighe, caviale e champagne, ma anche lui sa che Dan Brown non è uno scrittore. “Ospedali e galere e puttane: sono queste le università della vita. Io ho parecchie lauree. Chiamatemi dottore.” Paolo Roversi, giornalista nato a Suzzara nel 1975, ha fatto la cosa giusta: flash rapidi che gravitano intorno a “vita, vizi e virtù dello scrittore maledetto”. Ci ha messo dentro anche i versi di Come diventare un grande scrittore, poesia tratta da L’Amore è un cane che viene dall’inferno che da sola vale il consistente pacco di euro richiesto come retta annuale da una sedicente scuola di scrittura torinese. Intorno, gli anni selvaggi di Henry Charles Bukowski Jr., per gli amici Hank: nato ad Andernach, Germania, il 16 agosto 1920, portato via dalla leucemia il 9 marzo 1994. Anni che conosciamo già dalle pagine pubblicate dato che, come osserva onestamente l’autore: “(...) se avete già letto tanto di Buk la storia della sua vita non vi dirà nulla di nuovo semplicemente perché il più grande biografo di Charles Bukowski è Bukowski stesso.” Ecco allora l’ombra di un padre squattrinato e violento, la vocazione alla scrittura alimentata dai romanzi di Lawrence, Hemingway, Fante (l’amato Céline arriverà più tardi), i lavori saltuari e scadenti, l’alcool per bruciare una solitudine frustrante tra una tappa e l’altra dei suoi spostamenti per gli States. Ecco l’arresto a Philadelphia con l’accusa di renitenza alla leva, il primo sesso a 23 anni con una grassona conosciuta in un bar, l’arrivo a Los Angeles e le collaborazioni con alcune riviste underground. Ecco John Martin, manager appassionato di letteratura (praticamente un ossimoro) offrirgli la sua assistenza nel 1969 e, due anni più tardi, portarlo alla pubblicazione di Post Office. E poi Linda Lee Beighale, l’ultima compagna dopo uno squadrone di alienate: dolce, paziente e “capace di mettere freno alla sua vena autodistruttiva”. Non mancano le asserzioni sardoniche, amare, mordaci: “Tutti gli scrittori sono dei poveri idioti. È per questo che scrivono.” Oppure: “La cosa terribile non è la morte, ma le vite che la gente vive o non vive fino alla morte.” Buk era questo e naturalmente molto altro: il bel sorriso che accoglieva sulla porta gli ammiratori in pellegrinaggio, il nemico dei salotti letterari e delle pose stereotipate che nel 1978 lasciò sgomenti gli spettatori del programma televisivo francese Apostrophes, un poeta grandissimo armato di un’ironia atomica per polverizzare in un’unica mossa la paura del ridicolo e la grandeur ostentata dai re del mondo. Mai affetto da meliflua condiscendenza. Mai toccato da un vuoto di credibilità. Vivamente consigliato pertanto il lavoro di Roversi, omaggio sentito, particolarmente utile ai neofiti (ce ne sono, ce ne saranno sempre) anche per le interessanti appendici dedicate al culto di Buk in Italia, alle traduzioni dei suoi libri disponibili da noi e ad una scelta di links bukowskiani.
(N.G.D’A.) |
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