La morte ci riguarda, la
morte, specialmente se violenta, ci interessa. Oggi come ieri, forse in
misura maggiore, di sicuro in maniera profondamente diversa, nel
passaggio da un teatro della morte (gli spettacoli circensi dell’antica
Roma, un’impiccagione o una decapitazione in luogo pubblico, poniamo) ad
una virtualità della medesima, sia essa diffusa dal mezzo televisivo che
dal web, sia essa ripresa dalle telecamere della CNN o dal videofonino
di un tredicenne capitato per caso sul luogo di una tragedia.
La percezione della
morte attraverso i mass-media si configura come modificazione radicale
del sentire, della morale comunitaria. Che la Tv del dolore abbia
sensibilmente
scomposto il modo che abbiamo di riflettere sugli avvenimenti più
drammatici è un fatto che rende praticamente nulle analisi più profonde:
riceviamo immagini di vittime di un terremoto, di un conflitto a fuoco a
Secondigliano, della guerra di Bush, e siamo sempre spettatori
anestetizzati dalla distanza, dal filtro del commentatore di turno, dal
servizio a seguire sull’ultima fiamma del principino William
d’Inghilterra. Pure, la morte è quanto ci resta di reale nella vita di
tutti i giorni, dall’alba al tramonto, dal sorriso di un neonato agli
sforzi dell’ottuagenaria del piano di sopra che non ci vede più e fatica
a salire le scale se l’ascensore è fuori uso. La filtriamo attraverso il
cinema o i romanzi, per mezzo delle canzoni (a volte anche un pezzo pop
può affrontare il triste argomento), siamo pronti a tirarla in ballo
alla fine di una storia d’amore (“la nostra
relazione è morta, questo è il funerale di una bella storia!”).
La morte è un soggetto universale. L'universalità della morte, dice
l’uomo della strada, ci rende nudi e pertanto tutti assolutamente
uguali.
Lo scrittore William
T. Vollmann, nato a Santa Monica, California nel 1959 e conosciuto
finora in Italia da una ristretta cerchia di estimatori per tre raccolte
di racconti edite da Fanucci e per Puttane per Gloria (Mondadori,
1999), ha dedicato parte della sua vita ad un ambizioso trattato sulla
violenza in sette volumi per un totale di 3.300 pagine che in originale
si chiama Rising Up and Rising Down.
L’edizione ridotta della versione integrale (messa insieme per soldi,
dichiara l’autore nella prefazione) è in ogni caso un’opera che, come ha
ben notato Marco Philopat recensendola per XL, emana puzza di cadavere
ma soprattutto ha il pregio di rimuovere l’astratto, i termini teorici
dell’analisi storico sociale della violenza, per inoltrarsi nel campo
della testimonianza pura.
Per molti anni, mentre
quotidianamente venivamo a conoscenza di attentati, infanticidi, stragi
nelle scuole ed altri orrori, Vollmann, già autore di un reportage
sull'invasione sovietica dell'Afghanistan (An Afghanistan Picture
Show, or, How I Saved the World) ha camminato, visto e descritto,
mettendo rigorosamente da parte il narratore. Nei panni del
testimone-Caronte che abolisce la letteratura per entrare nel mondo,
Vollmann riesce a condurci nel dedalo delle catacombe parigine, nel
posto di lavoro di un coroner, poi in Bosnia, dove una mina ha ucciso
due suoi amici, poi ancora in altri luoghi dove la bellezza viene a
contatto con la morte violenta. E giunge ad interrogare figure del
passato come Platone, Giulio Cesare,
San Tommaso, Robespierre,
Lenin, Hitler, Gandhi, PoI Pot e Martin Luther King. Così, dentro
Come un’onda che sale e che scende
confluiscono l’indagine sociologica, il reportage, il saggio di storia
contemporanea (intorno ad una contemporaneità infettata dal fascino per
le armi) e riflessioni sulla percezione della paura da un capo all’altro
del globo: “Dal punto di
vista dei miei amici europei, la passione dei nordamericani per le armi
da fuoco è un segno di barbarie. Gli europei vivono in genere in un
contesto di servizi sociali pubblici, dove il cittadino, di solito, è
politicamente e storicamente più cosciente del suo omologo americano. La
sanità, la casa, la sicurezza eccetera sono più o meno garantite dallo
Stato. In poche parole, il contratto sociale è tanto efficiente quanto
efficace.” E,
ancora: “Credo che le
stragi commesse l'11 settembre siano ingiustificabili, crudeli e
sbagliate. La grande maggioranza della gente che ho conosciuto nello
Yemen l'anno successivo le considerava giustificabili. Come costruire un
ponte empatico tra noi e loro? Innanzitutto, possiamo considerare le
nostre non giustificazioni in rapporto alle loro giustificazioni. Nella
peggiore delle ipotesi, avremo praticato l'empatia, che è sempre una
buona cosa e, per la mia mentalità, il supremo principio delle relazioni
umane; nella migliore, avremo ricavato informazioni utili sul da farsi.”
Opera coraggiosa e
terrificante più che per gli eventi descritti, per la domanda di fondo
che attraversa tutte le sue pagine: Quando la violenza è giustificabile?
Perché Vollmann scrive: “Lo
scopo che mi sono dato all’inizio di questo libro è stato quello di
elaborare un sistema di calcolo morale tanto semplice quanto pratico che
chiarisse quanto è accettabile uccidere, quante persone si possono
uccidere e così via.”
E ha fegato da vendere,
sincerità che spiazza, mette fuori gioco chiunque abbia difficoltà
(ipocrite) ad inquadrare seriamente tanto il discorso delle vittime
quanto quello dei carnefici. Persone le une, persone le altre: l’atto
violento è ciò che sta nel mezzo, una volta accertato che l’intera
storia del mondo è la storia della violenza provocata o subita.
Nino G. D’Attis |