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SIMON REYNOLDS: POST-PUNK

(Isbn, pp. 716, € 35,00; traduzione di Michele Piumini e Anna Mioni)

SIMON REYNOLDS: POST-PUNK

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Più di settecento pagine, prezzo di copertina assolutamente proibitivo (per comprarmelo ho dovuto accendere un mutuo non agevolato fino al 2020), l’autore, nato a Londra nel 1963, già firma del Melody Maker, di Spin ed Artforum, indicato da più parti come “il più grande critico musicale vivente”. Ecco la traduzione italiana di Rip it up and start again, tomo salato e tuttavia fondamentale che colma una lacuna non trascurabile poiché, come annota lo stesso Reynolds nell’introduzione: “I testi sul punk e la scena del 1976-77 si contano a decine, ma su ciò che accadde dopo non esiste praticamente nulla.” Pure, l’influenza del post-punk, “periodo di sperimentazioni straordinarie nelle tecniche compositive e vocali”, si avverte tuttora in maniera oggettiva su alcune formazioni che negli ultimi anni sono riuscite a staccarsi dal mainstream musicale (tre nomi chiave: !!!, LCD Sounsystem e Liars). Non è una questione di semplice revival con tanto di mercato invaso da ristampe e antologie più o meno interessanti dedicate alla No Wave, al funk mutante o alla musica da ballo punk; il fatto è che gli anni che vanno dal 1978 al 1984, vale a dire il periodo analizzato in questo saggio, hanno visto in piena attività artisti seminali: John Lydon ed i suoi P.I.L., i Joy Division ed i New Order, i Killing Joke, i Throbbing Gristle, gli Scritti Politti, il Pop Group, il giro della Rough Trade e quello della Mute, fondata da Daniel Miller (l’uomo che offrì un’occasione ai Depeche Mode dimostrando un fiuto infallibile). L’elenco è vasto, sia che si parli di roba inglese, sia che l’attenzione si concentri sui fermenti americani (in particolare quelli rigurgitati dalla Grande Mela) ed è significativo notare quanto la spinta sperimentale del movimento sia stata in grado di mettere in luce e superare i limiti palesi della rivoluzione punk riportando in gioco la parola “contaminazione” e recuperando alcune cose del passato soprattutto sul piano estetico ma anche su quello formale (“I Cabaret Voltaire presero il loro nome dai dadaisti, i Pere Ubu da Alfred Jarry. I Talking Heads trasformarono una poesia sonora di Hugo Ball in un brano di dance tribale. I Gang of Four, ispirati da Brecht e dagli effetti alienanti di Godard, picchiavano duro, ma nel tentativo di decostruire il rock”).

Un’onda lunga, un periodo davvero fertile, un’esplorazione artistica che è anche geniale saccheggio di tutte le forme d’arte del Novecento: il Futurismo, Marcel Duchamp, la Nouvelle Vague francese, i paesaggi desolati di James G. Ballard, le satire spietate di William S. Burroughs, i Velvet Underground, il binomio Bowie/Eno (per inciso: il mai abbastanza compianto Stefano Tamburini è stato indubitabilmente e in tutte le sue incarnazioni terrene un artista post-punk).

   Grande merito di Reynolds (precedentemente conosciuto in Italia per la pessima traduzione del suo Generation ecstasy: into the world of techno and rave culture) è quello di non ammorbare il lettore con troppe seghe mentali alla Paul Morley e, dettaglio non meno trascurabile, di evitare toni accademici e clamorose cadute di stile. Lettura piacevole e istruttiva, insomma, nata in parte da un lungo articolo sullo stesso argomento realizzato dall’autore per la rivista Uncut. Libro che si sofferma volentieri su meteore del calibro di Vic Godard, leader dei Subway Sect, una band che oltre a rifiutare categoricamente di presentarsi in pubblico con un look alla moda e ad ispirarsi a formazioni del passato come gli Who, non fece mai uscire un album nel corso della sua breve carriera.

   Post-punk è da un lato un catalogo ragionato di sette anni irripetibili, dall’altro un lungo zibaldone di ricordi, storie, eventi che ha inizio con la scoperta  dei Sex Pistols e dei Devo “(...) un amico molto più maturo di noi portò a casa Jocko Homo/Mongoloid, uno dei loro primi singoli pubblicati dalla Stiff. Era la cosa più raccapricciante e degradante che avessi mai ascoltato.”, poi con le tribolazioni di un Johnny Rotten che al capolinea dei Sex Pistols rivela al mondo di poter andare molto oltre la truffa del rock’n’roll mettendo insieme un progetto musicale dieci volte più interessante, legato alla sua profonda passione per tutta la musica e a quella sensibilità artistica offuscata da Malcolm McLaren per questioni di marketing (l’immagine del marcio, sporco, imbecille sovrapposta a quella del ragazzo proletario curioso del mondo e della cultura prodotta dall’uomo). 1978: il nome è Public Image Ltd. (mutuato dal titolo di un romanzo di Muriel Spark) e ci sono dentro il bassista John Wardle, meglio conosciuto come Jah Wobble ed il chitarrista Keith Levene. Il primo singolo, avvolto in una finta pagina di tabloid, esce nell’ottobre dello stesso anno e si chiama Public Image, poi è la volta dell’album First issue, con dentro Religion I & II, Annalisa, Fodderstompf. Appena undici mesi più tardi sarebbe uscito il glorioso Metal Box, opera cardine non solo per i P.I.L. ma per il post-punk tutto.

   Riuscite a vedere qualcosa di altrettanto eccitante nel 2006?

 

 

(J.R.D.)

 

www.simonreynolds.net

http://www.isbnedizioni.it