Più di settecento pagine,
prezzo di copertina assolutamente proibitivo (per comprarmelo ho dovuto
accendere un mutuo non agevolato fino al 2020), l’autore, nato a Londra
nel 1963, già firma del Melody Maker, di Spin ed
Artforum, indicato da più parti come “il più grande critico musicale
vivente”. Ecco la traduzione italiana di
Rip it up and start again,
tomo salato e tuttavia fondamentale che colma una lacuna non
trascurabile poiché, come annota lo stesso Reynolds nell’introduzione:
“I testi sul punk e la scena del 1976-77 si
contano a decine, ma su ciò che accadde dopo non esiste praticamente
nulla.” Pure,
l’influenza del post-punk,
“periodo di
sperimentazioni straordinarie nelle tecniche compositive e vocali”,
si avverte tuttora in maniera oggettiva su alcune formazioni che negli
ultimi anni sono riuscite a staccarsi dal mainstream musicale (tre nomi
chiave: !!!, LCD Sounsystem e
Liars). Non è una questione di semplice
revival con tanto di mercato invaso da ristampe e antologie più o meno
interessanti dedicate alla No Wave, al funk mutante o alla musica da
ballo punk; il fatto è che gli anni che vanno dal 1978 al 1984, vale a
dire il periodo analizzato in questo saggio, hanno visto in piena
attività artisti seminali: John Lydon ed i suoi P.I.L., i
Joy Division
ed i New Order, i
Killing Joke, i Throbbing Gristle, gli Scritti Politti,
il Pop Group, il giro della Rough Trade e quello della Mute, fondata da
Daniel Miller (l’uomo che offrì un’occasione ai
Depeche Mode dimostrando
un fiuto infallibile). L’elenco è vasto, sia che si parli di roba
inglese, sia che l’attenzione si concentri sui fermenti americani (in
particolare quelli rigurgitati dalla Grande Mela) ed è significativo
notare quanto la spinta sperimentale del movimento sia stata in grado di
mettere in luce e superare i limiti palesi della rivoluzione punk
riportando in gioco la parola “contaminazione” e recuperando alcune cose
del passato soprattutto sul piano estetico ma anche su quello formale (“I
Cabaret Voltaire presero il loro nome dai dadaisti, i
Pere Ubu da Alfred
Jarry. I Talking Heads trasformarono una poesia sonora di Hugo Ball in
un brano di dance tribale. I Gang of Four, ispirati da Brecht e dagli
effetti alienanti di Godard, picchiavano duro, ma nel tentativo di
decostruire il rock”).
Un’onda lunga, un periodo
davvero fertile, un’esplorazione artistica che è anche geniale
saccheggio di tutte le forme d’arte del Novecento: il Futurismo,
Marcel Duchamp, la Nouvelle Vague
francese, i paesaggi desolati di James G. Ballard, le satire spietate di
William S. Burroughs,
i Velvet Underground, il binomio Bowie/Eno (per inciso: il mai
abbastanza compianto Stefano Tamburini è stato indubitabilmente e in
tutte le sue incarnazioni terrene un artista post-punk).
Grande merito di
Reynolds (precedentemente conosciuto in Italia per la pessima traduzione
del suo Generation ecstasy: into the world of techno and rave culture)
è quello di non ammorbare il lettore con troppe seghe mentali alla Paul
Morley e, dettaglio non meno trascurabile, di evitare toni accademici e
clamorose cadute di stile. Lettura piacevole e istruttiva, insomma, nata
in parte da un lungo articolo sullo stesso argomento realizzato
dall’autore per la rivista Uncut. Libro che si sofferma
volentieri su meteore del calibro di Vic Godard, leader dei Subway Sect,
una band che oltre a rifiutare categoricamente di presentarsi in
pubblico con un look alla moda e ad ispirarsi a formazioni del passato
come gli Who, non fece mai uscire un album nel corso della sua breve
carriera.
Post-punk è da
un lato un catalogo ragionato di sette anni irripetibili, dall’altro un
lungo zibaldone di ricordi, storie, eventi che ha inizio con la
scoperta dei Sex Pistols e dei Devo
“(...) un amico molto più maturo di noi
portò a casa Jocko Homo/Mongoloid, uno dei loro primi singoli
pubblicati dalla Stiff. Era la cosa più raccapricciante e degradante che
avessi mai ascoltato.”,
poi con le tribolazioni di un Johnny Rotten che al capolinea dei Sex
Pistols rivela al mondo di poter andare molto oltre la truffa del rock’n’roll
mettendo insieme un progetto musicale dieci volte più interessante,
legato alla sua profonda passione per tutta la musica e a quella
sensibilità artistica offuscata da Malcolm McLaren per questioni di
marketing (l’immagine del marcio, sporco, imbecille sovrapposta a quella
del ragazzo proletario curioso del mondo e della cultura prodotta
dall’uomo). 1978: il nome è Public Image Ltd. (mutuato dal titolo di un
romanzo di Muriel Spark) e ci sono dentro il bassista John Wardle,
meglio conosciuto come Jah Wobble ed
il chitarrista Keith Levene. Il primo singolo, avvolto in una finta
pagina di tabloid, esce nell’ottobre dello stesso anno e si chiama
Public Image, poi è la volta dell’album First issue, con
dentro Religion I & II, Annalisa, Fodderstompf.
Appena undici mesi più tardi sarebbe uscito il glorioso Metal Box,
opera cardine non solo per i P.I.L. ma per il post-punk tutto.
Riuscite a vedere qualcosa di altrettanto eccitante nel 2006?
(J.R.D.)
www.simonreynolds.net
http://www.isbnedizioni.it
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