“Let's have a
black celebration
Black
celebration
Tonight
To celebrate the
fact
That we've seen
the back
Of another black day”
Il titolo di questa
biografia deriva da uno degli album più amati dei Depeche Mode, atto
secondo di quella fase matura intrapresa nel 1984 con Some great
reward e prologo al dittico Music for
the masses (1987) e Violator (1990). L’opera al
nero, lo stacco definitivo dal pregiudizio (covato soprattutto in
patria) che i ragazzi venuti dalla grigia Basildon non potessero essere
altro che una boy-band senza diverso futuro all’orizzonte dopo una
manciata di singoli azzeccati.
Opera di chiaroscuri,
con diverse scivolate nel nero si può definire anche l’incrocio tra arte
e vita vissuta di ciascun componente del gruppo: successo, eccesso,
crolli psicofisici hanno scandito 26 anni di dischi e giri intorno al
mondo, tra droga, alcolici, divorzi, esaurimenti nervosi, scontri di ego
e ricoveri in cliniche per la disintossicazione come da copione. Il pepe
dei libri dedicati alle icone del rock è esattamente questo (da
Nessuno uscirà vivo di qui,
dedicato alla figura di Jim Morrison a The Dirt, incentrato sulle
malefatte dei Mötley Crüe, è tutto uno spasso). Pure, Depeche Mode
Black Celebration riesce a coinvolgere il lettore su altri livelli,
non ultimo quello strettamente musicale, con pagine e pagine occupate
dalla direzione sonora intrapresa dalla band in un dato momento (il
fascino della Berlino mitteleuropea di Bowie/Eno; l’uso delle chitarre
in Violator; il gospel di
Songs of faith and devotion e così via), oppure dai curricula dei
diversi produttori chiamati a seguire le sedute di registrazione e,
ancora, dai veleni puntualmente versati dalla stampa inglese nella coppa
del definitivo trionfo.
Una storia che ha
inizio nel 1979, sotto il monicker Composition
of Sound poi modificato prendendo a prestito una definizione
trovata su rivista di moda francese. Il debutto nella discografia con il
brano Photographic incluso nell’antologia Some Bizare Album
curata da Stevo Pearce, manager dei Soft Cell, quindi l’incontro con
Daniel Miller, fondatore
dell’etichetta Mute e loro pigmalione.
I Depeche Mode hanno
lasciato un segno e sono diventati un marchio riconosciuto in tutto il
pianeta (curioso esempio più unico che raro di qualità artistica
associata al concetto di macchina per soldi). Ancora oggi riescono a
tenere il palco meglio di molte altre glorie del passato e ad incidere
dischi che, oltre a svettare in cima alle hit parade mondiali,
riaccendono l’entusiasmo dei fans. Inossidabili. Artefici di uno stile
unico. Popolari quanto i Rolling Stones.
Steve Malins,
collaboratore delle riviste Q, Time Out e Vox già
autore di volumi biografici dedicati a Duran Duran, Paul Weller, Gary
Numan e Radiohead, è stato in contatto con il produttore Daniel Miller e
con i membri della band Andy Fletcher, Martin Gore, Dave Gahan, ma anche
con l’ex componente Alan Wilder (transfuga alla fine dell’estenuante
Devotional Tour). Il suo è un libro onesto (e attualmente secondo
tra i testi musicali più venduti in Italia), aggiornato fino alla
nascita dell’ultimo disco dei DM Playing The
Angel. Il racconto di un sogno che diventa realtà. A caro
prezzo, s’intende. Il rock non fa sconti a nessuno.
(N.G.D’A.) |