L’immagine
argentiana scelta per la copertina (un fotogramma dal film Inferno) è
ingannevole. Siamo sempre nel nero, nelle zone buie che la collana Black
della Marsilio ama farci frequentare, ma nel romanzo di
Frederick Busch, uscito in patria nel 1997, non
troverete orrori gotici, fiumi di sangue, urla e smembramenti assortiti.
Dolore umano, quello sì. Acuto, profondo, inesorabile come il percorso a
ritroso nel teatro della memoria che compie Jack, triste addetto alla
sicurezza di un campus tipicamente americano (figli di papà sbronzi,
arroganti e turbolenti, professori in pantaloni di velluto e stivali da
cowboy che tirano giù le mutandine alle loro studentesse, TransAm con una
testa dei Grateful Dead appiccicata sul
finestrino posteriore). Benché Jack sia un reduce del Vietnam, le sue ferite
ancora aperte hanno a che fare con la fine del sogno di un’esistenza
tranquilla accanto alla moglie Fanny e alla figlia Hannah. Tutto perduto,
andato, inghiottito da una voragine di disperazione. Perché un giorno la
morte si è introdotta nella sua casa e da allora lui non è più riuscito a
prendere le distanze da una perdita che ha svuotato di desideri un uomo e
una donna, marito e moglie, padre e madre.
“Sapevo quale
doveva essere l’aspetto di Fanny. I suoi occhi sarebbero stati enormi. Il
suo volto, fradicio di lacrime. Sarebbe stata molto pallida. Avrebbe
sollevato e spinto oggetti come un uomo. Era addestrata al lavoro fisico.
Aveva dimestichezza con le macerie.”
Storia di un inverno interiore, più freddo dei paesaggi innevati nel nord
dello Stato di New York che fanno da scenario alla vicenda. Lungo monologo
intorno al trauma di una tragedia che i protagonisti non sanno esorcizzare,
vittime di un’afasia, di una paralisi dei sentimenti ogni giorno più
insostenibile. L’elemento thriller è solo l’ossatura intorno alla quale
Busch, rinunciando a molti luoghi topici del genere (una caccia vera e
propria alla Thomas Harris con tanto di profilo
psicologico del villain di turno non c’è) annoda i nervi di un romanzo di
orrori sospesi: la ricerca di una quattordicenne scomparsa, probabilmente
preda di un maniaco, rimette Jack in azione come ai tempi della guerra. È
una scintilla che gli accende dentro l’illusione di poter essere ancora
utile a qualcuno/qualcosa, tutto ciò a cui la sua anima logorata riesce ad
aggrapparsi.
Cupo e privo di effetti speciali, segnato da una buona capacità di
ambientazione, poi da dialoghi che diventano una mappa del dolore/destino
privato, Ragazze concede poco spazio
all’ironia. C’è giusto una curiosa sottotrama che ad un certo punto si
innesta nel racconto centrale: l’annunciata
visita
al campus del vicepresidente americano viene minata da quella che
sembrerebbe la minaccia di un attentato in forma di poesiola annotata su un
libro intitolato Superfluità indispensabile: una storia della
vicepresidenza negli Stati Uniti. Le conseguenze non si fanno attendere
a lungo: arriva l’FBI, ha inizio un ridicolo braccio di ferro tra i “nostri”
(si fa per dire) e Irene Horstmuller, coraggiosa direttrice della biblioteca
pronta a finire in manette pur di non rivelare l’identità della persona che
ha preso in prestito il libro incriminato. È un intermezzo che ha il sapore
di un omaggio (involontario?) alla grande soap-opera a strisce Doonesbury
di Garry Trudeau, ma la lotta di Jack
contro i fantasmi che lo tormentano ha la precedenza assoluta. Si arriva
alla fine sapendo che non ci sarà un happy end. Si ritorna all’inizio, con
della gente comune che sta spalando in un campo innevato. “L’idea” dice Jack
“era di non spezzare le sue membra congelate”.
(N.G.D’A.) |