GIULIA FAZZI: Ferita di guerra (Gaffi editore, pp. 243, euro 7) |
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“Domani è lunedì. Torno a lavorare. Domani mi licenzio, consegno la lettera di dimissioni. Saranno contenti, finalmente hanno ottenuto quello
che desideravano da tempo. Entro alle otto, indosso il grembiule per l’ultima volta, comincio a lavorare e aspetto che arrivi Venturi per consegnare la lettera. Io devo solo stare attenta a fare finta di niente, okay? Non parlo, me ne sto per i fatti miei così nessuno verrà a rompermi le palle. Giuro che non aprirò bocca, farò ciò che ho deciso e lo farò con calma, tanto in quel posto di merda nessuno si accorgerà di niente.” L’opera di Giulia Fazzi colpisce al cuore e lascia stordito il lettore. Il pregio principale del romanzo è quello di descrivere la storia di un sopruso carnale e morale in modo diverso, problematizzando il racconto di un disagio che coinvolge anche la sfera lavorativa e le sue feroci ambiguità. La distruzione psicologica della protagonista, Lisa Accorsi, descritta con una tecnica molto efficace (un semiflusso di coscienza perenne e ossessivo che si infila costantemente nelle maglie della narrazione fino ad avvolgerla in una sorta di sudario), viene presentata senza facili patetismi o ridondanti moralismi né prevedibili cadute nell’elogio della vendetta scioccamente consolatrice. Il romanzo è la storia di una vita che viene letteralmente strappata e calpestata in modo brutale, orrendo. Si fa fatica a staccare gli occhi dalle pagine tanta è la bravura della Fazzi nel tessere questa vicenda che non lascia un attimo di respiro. I dialoghi, soprattutto, sono molto vivi, intensi, realistici, quasi una perfetta sceneggiatura cinematografica. “Là dentro fanno quello che gli pare. Sii parte di una grande famiglia. Possono fare quello che vogliono.” La Fazzi descrive un fatto attualissimo, uno strupro consumato in un posto di lavoro come ce ne sono tanti in Italia. Violentata da Sandro, uno dei suoi datori di lavoro, uno che non le ha mai staccato gli occhi di dosso. Non si tratta semplicemente di raccontare una violenza fisica subìta, ma di analizzare una condizione esistenziale alienata e alienante. Il mondo del lavoro, in questo caso una fabbrica di Carpi, come specchio di una realtà in cui pullula un disagio umano difficilmente contrastabile. Le lotte, i diritti, le rivendicazioni sindacali di cui si fa portavoce isolata la protagonista delineano un quadro desolante e pessimistico, solo in parte vivificato dal finale che sembra concedere uno spiraglio di speranza, di luce. Un altro caso di mobbing? Sì, ma il romanzo della Fazzi non è solo questo. È la voce dell’anima che esplode rabbiosa, impotente, distruttrice nei confronti di un nemico contro cui lottare è pressoché impossibile perché può tramutare i tuoi affetti e le tue certezze in dubbi e interrogativi sconvolgenti. Lisa rivendica i propri diritti di lavoratrice, non abbassa la testa, non si piega di fronte ai ricatti psicologici attuati dai suoi superiori: è un osso duro, una lavoratrice giovane che si batte per non soccombere nello squallido e perverso mondo del lavoro. “Perché non fai come noi? Perché non sei come tutte noi? Quando usciamo di qui ci dimentichiamo di tutti i problemi dentro la Rubino ci sono le cose da fare i padroni i problemi fuori dalla Rubino c’è la tua vita la tua famiglia e non ci sono i problemi della Rubino capisci? Ti è chiara la differenza? Dentro e fuori tesoro non devi capire altro invece continui a provocare guai perché?” Ed ecco il pensiero, l’anima della protagonista frantumarsi in mille schegge e descrivere ossessivamente ogni sensazione che quella violenza ha scatenato, come se il racconto di Lisa fosse un continuo gioco di specchi in cui ogni parola riflette infinite volte l’eco atroce e indissolubile di una memoria ferita a morte. Rintanata in se stessa, Lisa Accorsi dopo la violenza subìta fugge da tutto e da tutti, vittima di un isolamento che diviene una prigione dalla quale sembra impossibile evadere. Ferita di guerra, appunto, perché ciò che Lisa deve combattere è una guerra non solo per resistere alle violenze, prima verbali e poi fisiche che la investono, ma soprattutto per affermare la propria identità di donna, anzi, di essere umano. Difficile confessare ai propri genitori il dramma che sta vivendo: allora meglio rintanarsi nel buio del cuore e della mente. Ma l’isolamento acuisce l’ansia, il dolore, la rabbia, il desiderio di vendetta; le domande si moltiplicano, gli interrogativi divengono voci che perennemente tormentano e invitano alla fine, alla voglia di morire, di non essere più. Anche gli amici non riescono ad aiutarla. Lisa oppone loro un muro, una barriera a prima vista impenetrabile. La violenza subìta conduce lentamente la protagonista verso l’autodistruzione. Riuscitissimo il continuo alternarsi e combinarsi di flashback nel racconto, un montaggio interessante che riesce a costruirsi come una spirale. Bellissimo, seppur drammatico, è il brano in cui Lisa, mentre subisce la violenza, scopre una piccola feritoia, un’incrinatura nella lampada che illumina il suo corpo brutalmente riverso su di un tavolo in balìa del suo carnefice. Lisa vorrebbe in quel momento farsi piccola, minuscola, per potersi infilare nell’incrinatura e fuggire così da una realtà assurda e violenta che si impossessa della sua vita e la calpesta senza alcuna pietà. “Il lampadario a neon che sta sopra la mia testa ha una lunga incrinatura centrale me ne accorgo proprio ora che alzo gli occhi e lo guardo cercando di concentrarmi su di esso concentro il mio pensiero sulla sua forma e sulla luce penso che vorrei diventare piccola e sottile per scivolare via dalla sua stretta per infilarmi dentro la fessura sparire nella brutta luce bianca da sala operatoria che mi fa sentire ancora più esposta e nuda con lui che mi spezza le ossa a ogni colpo colpi ficcanti e cattivi perché vuole farmi male so che presto finirà so che presto sarà tutto finito e potrò tornarmene a casa solo questo conta presto sarà tutto finito continuo a ripetermelo presto sarà tutto finito presto sarà tutto finito e lui comincia a spingere più forte mi toglie la mano dal collo mi afferra i polsi finalmente riesco a respirare bene finalmente penso che forse non morirò soffocata e lui spinge più forte si china cerca di baciarmi sulla bocca mi lecca le labbra e la guancia mi ansima sulla faccia poi trattiene un attimo il respiro sembra che annaspi e mi viene dentro e crolla su di me riprendendo fiato con la bocca sul mio collo respira grandi boccate è contento è venuto il bastardo è contento ancora dentro di me solleva la testa mi prende per i capelli togliti adesso.” Ad un certo punto, però, nel racconto avviene una svolta: Lisa trova la forza, il coraggio di esternare ciò che la opprime e la tormenta senza pietà. Le illazioni, le menzogne e le maldicenze sul suo conto si accavallano e inseguono in una cittadina come Carpi. Ciò che fa più male è vedere il proprio nome manipolato nelle ambiguità di mille interpretazioni. Di colpo il mondo giudica, condanna, emette sentenze senza conoscere la verità. E allora Lisa può tranquillamente essere scambiata per una ragazza facile, provocante, pronta a sollecitare il suo carnefice. Di colpo non esiste più una netta separazione tra il bene e il male, ma tutto viene confuso in una rappresentazione oscura e viscida in cui l’opinione pubblica è ipocritamente manipolata dai media. Tutto ciò, forse, ferisce Lisa ancor di più. Ferita di guerra merita attenzione e quello di Giulia Fazzi è un talento spontaneo e coinvolgente che speriamo di poter presto apprezzare in nuove opere.
Alessio Degli Incerti |
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