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IGINO DOMANIN: Gli Ultimi giorni di Lucio Battisti (Pequod, pp. 119, € 12,00)

 

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C’è qualcosa di in/credibile in questo libro del momento che sta rimbalzando nei dibattiti e nelle recensioni di blog in blog verso venerdìdirepubblica e quanto di meglio (peggio?).

C’è qualcosa di vivo e pulsante in questo funerale di una generazione, nelle sue vicende acide, in certi dialoghi calibrati perfettamente, dà un piacere morboso avanzarne nella lettura.

 

“Ricordati che prima o poi morirai. La contingenza è un destino, non una scelta. Vivere in questo contesto di rischio totale e anonimo riguarda la nostra mortalità. Un orizzonte al quale non puoi sfuggire. Se hai un buon rapporto con la morte forse potrai abituarti a vivere!

 

“È falso. Come si può aver un buon rapporto con la morte. Come si può vivere felicemente sapendo che tutte le cose che ti stanno intorno, gli oggetti che tocchi, i tuoi possessi più intimi sono simulacri che stanno andando in pezzi. Che sono intessuti di morte. No, non ho un rapporto con la morte. Per me è solo un’aggressione.    

 

È un funerale, certo, ma con tanto di banda balcanica al seguito e con i parenti e gli amici a gozzovigliare. Strani finali happy end grigi che non lasciano speranza di redenzione o inversioni di rotta, niente terra in vista. I nuovi eroi crollano infartuati ai bordi di una pista di un bordello di lusso o suicidi dopo un taglio del personale di aziende che si occupano di portali Internet. Cioè di un nulla che era parso abbracciare l’intero universo. I nuovi eroi si arricchiscono vendendo pornografia attraverso i dialer con una società che ha sede a Budapest.

   Ed è un piccolo miracolo di leggerezza narrativa considerando che batte ossessivamente sugli stessi sintomi che annunciano la malattia definitiva del nostro tempo, analizzando lo sfaldamento della new economy affogata negli aperitivi e nei party a tema, con atmosfere che ricordano Bajani, anche se la lingua di Cordiali saluti è più asciutta, meno densa di effetti pirotecnici.

Le ripetizioni di Domanin diventano assonanze che rassicurano il lettore invece di tediarlo. Mai i periodi scivolano inutili, senza che una parola scuota (magari fastidiosamente) i nostri sensi, forse la scelta dei racconti (cinque) ha facilitato l’impresa.

   Personalmente sono refrattario ai mi ricordo e se una cosa mi ha leggermente disturbato è il ricorso alla pancia di Bertolucci che chissà perché ha impressionato varie generazioni, segnandole indelebilmente. Se può interessare il fratello di mia madre, ex operaio ai cantieri navali di Palermo, è una specie di sosia del giocatore di tennis vincitore della Coppa Davis. Mi auguro che non freghi un cazzo a nessuno.

   Anche Domanin infarcisce con qualche ricordo da condividere, pare impossibile sottrarsi a questo folklore, in particolare nel racconto che dà il titolo al libro, non il più riuscito, ma sa farsi perdonare, (ecco il punto, Domanin sa farsi perdonare tutto) perché il suo cervello ha continue esplosioni, intarsi linguistici paraculi che si fanno ammirare anche quando il tessuto non è percorso da trame molto originali.

   Come detto, molto si gioca sul filo della vertigine della in/credibilità, l’io narrante di Androginia Sovietica pare un virus bizzoso che si muove alla velocità della luce tra la Russia e l’Europa Atlantica degli anni ’70, seguirne gli zig zag toglie il fiato, una spy story dell’impossibile alla quale ci abbandoniamo come inebetiti di filetto allo Stroganov e dall’Amarone del racconto precedente (Dolce vita per ominidi, splendido titolo per un mirabile affresco di miseria umana). E ci pare davvero cattiveria gratuita attaccarne la coerenza dei teoremi socio-politici teorizzati.   

   Discorso a parte merita il racconto Il paradiso, adesso. Può essere esercizio interessante dedicarsi alla pura fiction modello strategia della tensione per entrare in sintonia con un cervello di sbirro/fascista/infiltrato/paladino dell’ordine costituito. Anche se nessuno riuscirà mai a creare qualcosa di attendibile. Magari basta esserne consci e il peccato originale va in prescrizione.

   Fa parte del gioco. Non sapremo mai con precisione cosa è girato (e gira) nel cervello di certe teste di cazzo. Perché in questo paese disperato la cronaca mai si scollerà dalla storia, cortocircuito necessario alla comprensione.

   Permangono dubbi anche sul potere metaforico del finale del racconto.

Un cazzo in bocca affogherà i vostri sogni?

 

Saverio Fattori