JEFFREY EUGENIDES: Middlesex (Mondadori, pp. 606, € 19,00; traduzione di Katia Bagnoli) |
Questo romanzo contiene almeno trecento pagine in eccesso e dimostra come l’altra faccia di una produzione narrativa sovrabbondante possa essere talvolta quella dello scrittore che tace per dieci anni e poi partorisce l’opera elefantiaca che gira intorno a se stessa. Fino a rivelarsi micidialmente soporifera. Fino a far rimpiangere quell’esordio del 1993 tanto più fresco e snello. Bel libro crudele e ispirato, Le Vergini suicide (se avete visto/apprezzato il film ma non l’avete letto, non è per voi che sto scrivendo questa recensione). Middlesex ha vinto il Pulitzer 2003 e, a ben vedere, anche una notizia del genere rivela qualcosa: in America, come in Italia, sono le grandi saghe/seghe a battere la concorrenza nella corsa al premio letterario più prestigioso. Gli alberi genealogici con i rami scossi dai venti della Storia. Le nonne religiose e superstiziose che in gioventù hanno allevato bachi da seta e praticato l’incesto. I nonni scampati al tremendo fuoco che rase al suolo Smirne nel settembre del 1922 (queste, in verità, sono le pagine più riuscite, insieme ad altre che rievocano i tumulti razziali a Detroit nel 1967). E i papà ex boy scout che suonavano al clarinetto Begin the beguine di Artie Shaw a mamme/cugine destinate a dare alla luce l’ermafrodito Cal (all’anagrafe Calliope), voce narrante del polpettone. L’epica tessuta secondo un canone classico, sia pur tra ricorrenti, ironici “Cantami o Musa”. Una storia di europei che sbarcano ad Ellis Island pieni di speranze, spaventati dalla Immigration Restriction League: “(...) i poligami a dichiarare una sola moglie, gli anarchici a tacere d’aver letto Proudhon, i malati di cuore a simulare vigore (...)”, in un inizio secolo americano dominato dall’idea fordista (“Notizia storica: gli uomini smisero di essere umani nel 1913, l’anno in cui Henry Ford fece assemblare le vetture sul nastro trasportatore e costrinse gli operai a adeguarsi alla velocità della catena di montaggio.”), cui fa da contrappunto l’arte di arrangiarsi trafficando alcolici in pieno proibizionismo. Poi la guerra, l’invasione del Pacifico, le News of the World proiettate al cinema, un altro matrimonio tra consanguinei, la Cadillac Fleetwood, i bikini, l’acido lisergico, Harold Robbins, l’era Kissinger (frase celebre: “Il potere è il più efficace degli afrodisiaci”). Gli intervalli sono dedicati alle riflessioni su se stesso di un Cal adulto, ‘rinato’ maschio nel 1974, dopo quattordici anni vissuti da bambina e oggi trasferitosi a Berlino proprio come Eugenides che da un po’ ha abbandonato gli Stati Uniti. Ottima la grancassa di colleghi e pennivendoli blasonati, con Jonathan Franzen che strilla in copertina: “Jeffrey Eugenides è un grande talento e Middlesex vi conquisterà” e Laura Miller che sul New York Times lo definisce “Deliriously american”. Bravo, d’accordo. Non si può negare il talento di un autore perfettamente a suo agio sul registro della tragicommedia. Però due palle così riusciva a farmele anche Saul Bellow (avrei dovuto sentire puzza di bruciato una volta lette le critiche che azzardavano connessioni tra i due).
(N.G.D’A.) |
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