NICK TOSCHES: La Mano di Dante (Mondadori, pp. 374, € 18,00; traduzione di Fabio Zucchella) |
“Un’arte virile. Soltanto dopo essere diventato uno scrittore arrivai a riconoscere questa bugia per quello che era.”
Negli States, Nick Tosches è considerato da tempo una figura intellettuale in odore di leggenda. Amico di Hubert Selby Jr., con il quale ha anche inciso nel 1998 uno spoken words album dal titolo Blue eyes and exit wounds, nato nel 1949 a Newark, nel New Jersey, cresciuto nel bar del padre, ha studiato da autodidatta (con una spiccata predilezione per l’arte e la letteratura italiana, oltre che per le storie raccontategli in presa diretta da malavitosi vecchio stampo) e, in mezzo agli altri lavori sperimentati prima di fare fortuna come scrittore, è stato all’interno della Lovable Underwear Company a New York, poi cacciatore di serpenti in Florida per conto del Miami Serpentarium. Tra i suoi molti libri, spiccano Dino: living high in the dirty business of dreams (1992), cruda biografia di Dean Martin che da tempo Martin Scorsese sogna di portare sul grande schermo e che è appena approdata nelle librerie italiane per Baldini Castoldi Dalai; The Devil and Sonny Liston (2000); Trinities (1994, edizione italiana del 1997 per Longanesi & C.) ed Hellfire (1982), sulla vita della leggendaria rockstar Jerry Lee-Lewis, tomo proclamato dalla rivista Rolling Stone “the best rock and roll biography ever written" e magnificato dal decano della critica rock Greil Marcus. Tra tanti bluff in circolazione, Tosches è una personalità eccezionale, un raro esemplare di scrittore puro, della razza meravigliosamente bastarda e onesta di Norman Mailer, per capirci. Il suo romanzo La Mano di Dante, opera che affronta a viso scoperto i punti cruciali più oscuri del mestiere di scrivere (mirabile la tirata sui colossi dell’editoria mondiale amministrati da gente notoriamente ignorante come una capra), è una delle esperienze più forti ed entusiasmanti che mi sia capitato di vivere come lettore. “Il mio agente e io sapevamo che avrei potuto guadagnare qualche milione, se solo mi fossi prostituito con freddezza e calcolo. Vale a dire, se avessi rinunciato a tutta la mia moralità, a tutto il mio orgoglio, a tutto ciò che avevo di più sacro, e mi fossi dedicato a fabbricare un bestseller di pure stronzate.” Da un lato c’è un personaggio sbattuto dalla vita, dall’alcool e dal diabete che si chiama Nick Tosches e che si ritrova ad avere a che fare (grande lo spreco di pallottole e sangue) con Joe Black, un pezzo grosso della mafia entrato in possesso di quello che potrebbe essere il manoscritto originale della Divina Commedia. Dall’altro, Dante Alighieri in persona, colto in un momento di deprimente blocco creativo, simile a un timido scolaretto dinanzi ad un cabalista ebreo che vive a Venezia e nasconde il suo vero nome dietro quello di Isaia. “Durante le sue precedenti visite il poeta aveva portato con sé qualche foglio con i propri versi, dapprima credendo che il vecchio avrebbe potuto chiedergli di misurarli secondo il calibro della propria anima, poi con la crescente speranza che l’altro avrebbe, se non proprio richiesto di vederli, almeno espresso un interesse nel vederli.” La violenza e la poesia: l’elemento animalesco, osceno (che si presenta fin dalle prime pagine urticanti) e quello soave, impalpabile, che si intrecciano e si configurano come un duplice salto mortale colmo di tensione e liricità. Mario Puzo e Mario Praz, a volerla buttare sullo spirito di patata. Però un po’ è vero, mentre meno azzeccato mi sembra l’accostamento (ah, le tecniche di marketing!) con James Ellroy, tenuto conto quest’ultimo non è per niente avvezzo a dissertare della propria scrittura o di quella altrui all’interno di un romanzo. “Gli scrittori immaturi plagiano, quelli maturi rubano. Ma pur appartenendo ai primi, agivo come i secondi. Soprattutto rubavo a me stesso. Parole e frasi di cui mi ero innamorato, sia che mi ci fossi imbattuto o che mi fossero uscite da dentro, venivano incessantemente ripetute, riciclate, cavalcate come cavalli finché non erano morte.” Chi è Nick? Chi era Dante? Cosa hanno fatto questi due personaggi delle loro vite, dei loro affetti, delle loro ambizioni? La Mano di Dante è la storia di un mistero più grande di qualsiasi noir che vi sia capitato tra le mani. Una storia che, pur tra le debite differenze, si apparenta in qualche modo a quella narrata in Avenida Revolucion di Cesare Battisti nel suo indagare i tormenti della scrittura, il rapporto di alternanza drammatica e conflittuale tra letteratura e realtà. Ed è un libro che inquadra (molto meglio del noiosissimo L’Informazione di Martin Amis) lo scrittore alla maniera di un funambolo che precipita disciplinatamente verso i presupposti della propria sconfitta. “Perché è l’onestà la maledizione della nostra epoca”, Nick ne è sicuro come è sicuro di essere diventato vecchio, con l’uccello che non gli funziona più e tutti quei pensieri che fanno male perfino mentre se ne sta sdraiato all’ombra dentro un’amaca, a rimirare il panorama di una spiaggia da sogno chiamata Pofai. Immenso. Bello da far male. Scritto da un dio che riesce a vomitare amarezza e rancore, ma anche parole d’incanto, restando in piedi come pochi altri. Nino G. D’Attis
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