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Titolo originale: id. |
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Regia: Matteo Garrone |
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Interpreti: Toni Servillo, Gianfelice Imparato, Maria Nazionale,
Salvatore Cantalupo, Gigio Morra, Salvatore Abruzzese, Marco Macor, Ciro
Petrone, Carmine Paternoster, Salvatore Ruocco, Simone Sacchettino, Vincenzo
Fabricino, Gaetano Altamura, Italo Renda, Salvatore Striano, Carlo del
Sorbo, Vincenzo Bombolo, Alfonso Santagata, Massimo Emilio Gobbi, Salvatore
Caruso, Zhang Ronghua, Manuela Lo Sicco, Giovanni Venosa, Vittorio Russo,
Bernardino Terracciano |
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Soggetto: Roberto Saviano |
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Sceneggiatura: Matteo Garrone, Roberto Saviano, Maurizio Braucci, Ugo
Chiti, Gianni Di Gregorio, Massimo Gaudioso |
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Fotografia: Marco Onorato |
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Scenografia: Paolo Bonfini |
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Costumi: Alessandra Cardini |
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Musica: Leslie Shatz, Robert Del Naja, Neil Davidge |
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Montaggio: Marco Spoletini |
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Produzione: Fandango, in collaborazione con Rai Cinema e SKY, e con
il supporto del Ministero dei Beni Culturali |
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Paese: Italia Anno: 2008 |
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Durata: 135' |
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Distribuzione: 01
Distibution |
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Sito ufficiale:
http://www.mymovies.it/gomorra/ |
Un altro mondo, un altro
pianeta sconosciuto ai più. Sarà per questo che le immagini del prologo
con i criminali all’interno del solarium fanno pensare a un’astronave, a
un film di fantascienza (non 2001 Odissea nello spazio ma
Alien). Il pianeta povero e
degradato, questa terra difficile, regno di disperazione e violenza (ed
emblema di tutti i sud del mondo) è a casa nostra e Roberto Saviano ha
saputo raccontarlo da dentro, con grande coraggio, nel libro che ha
ispirato prima l’omonimo spettacolo teatrale di Mario Gelardi, poi la
pellicola di Matteo Garrone presentata in concorso al 61° Festival di
Cannes e vincitrice del Grand Prix della Giuria.
Siamo all’inferno, la sala
cinematografica diventa un posto spaventoso quando le armi cominciano a fare
fuoco e i pistoleri non hanno niente dell’eleganza spettacolare degli assassini
di John Woo, De Palma o Scorsese. Questa
volta il cinema non mitizza, non interroga se stesso e non usa scorciatoie; non
si esaurisce in una catena di rimandi da un oggetto all’altro, puntando
piuttosto alla stessa essenza della realtà considerata. È cinema che si sottrae
all’idea di arte pregna di dogmatismi consolatori, al canone salvifico che non
dà scandalo, non apre contrasti, non sovverte convenzioni radicate. Realismo
crudo: ecco cosa fa sentire a disagio lo spettatore, cosa fa sobbalzare sulla
poltrona anche il più scafato amante dell’horror. Il nero, in Gomorra,
non è un colore poetico ma l’assenza totale di luce, l’impossibilità di vedere,
nella successione di totali e primissimi piani, da quale punto sbucherà
l’avversario quando la guerra che si sta combattendo è tra amici, vicini di
casa, membri dello stesso nucleo familiare. E la morte non è mai eroica in
questa pellicola che ha come unici punti di riferimento recenti Traffic
di Steven Soderbergh e City of God di
Fernando Meirelles.
Vite di miseria, morti misere
che raccontano il rapporto che ha il potere camorristico con le persone che gli
sono sottoposte: Don Ciro è ‘il sottomarino’, il ragioniere che sale e scende
scale, bussa alle porte, distribuisce i soldi ai parenti dei detenuti affiliati
al suo clan e di questi assistiti è diventato il confessore, il messaggero di
lamentele quando i soldi sono troppo pochi per tirare a campare. Totò è un
tredicenne che ha fretta di crescere, di farsi notare da quelli che contano
(modelli che, in un posto come le Vele di Scampia, generano forme di consenso,
stimolano comportamenti di emulazione ed integrazione anche attraverso una
verifica costante dei livelli di obbedienza). Marco e Ciro rubano le armi ai
pezzi da novanta inseguendo il sogno di ricalcare le gesta di Al Pacino/Scarface.
Pasquale è un sarto di gran talento al servizio di una piccola fabbrica a nero
che prende gli appalti delle case d’alta moda (il ‘Made in Italy’, orgoglio
tricolore a qualsiasi latitudine) e si sostiene grazie al credito dei clan.
Roberto è il factotum laureato di Franco, un uomo senza scrupoli che si è fatto
strada come stakeholder, mediatore della camorra nel campo degli smaltimenti
tossici illegali.
Ecco le storie che compongono
il mosaico apocalittico di Garrone. Un puzzle di cemento armato, un presepe
sociale di dannati della terra all’interno del quale lo Stato non c’è, i
poliziotti sono poco più che spettri che vengono mostrati solo attraverso
dettagli fugaci dei loro corpi, delle loro automobili. La fotografia di
Marco Onorato trasforma le strade, gli
interni, in un unico campo neutro spoglio di mezze misure: anche la sposa che
avanza sul ballatoio circondata da amici e parenti non è un soggetto separato
dal contesto, non si connota come figura surreale. Un livello più in alto, gli
spacciatori stanno lavorando. Nella prigione a cielo aperto, in un degrado che
è nodo cruciale dell’Italia contemporanea, è un giorno come un altro e domani
quella sposa piangerà perché qualcuno le avrà ammazzato un figlio, perché suo
marito sarà passato a un altro clan.
Non c’è poesia che possa darci
consolazione: solo incognite, domande prive di risposte. L’opera magnifica che
Garrone ha consegnato al pubblico risponde all’assunto di Jean-Paul Sartre:
"prodotto di società lacerate, l'intellettuale è un loro testimone poiché ne ha
interiorizzato la lacerazione."
Nino G. D’Attis
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