Titolo originale: id. |
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Regia: Paolo Sorrentino |
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Interpreti: Roberta Fiorentini, Clara Bindi, Gigi Angelillo, Laura
Chiatti, Fabrizio Bentivoglio, Giacomo Rizzo, Lucia Ragni, Luisa De Santis,
Elias Schilton,
Barbara Scoppa, Giorgio Colangeli, Lorenzo Sorrentino, Barbara Valmorin,
Geremia Longobardo, Alina Nedelea, Lorenzo Gioielli, Marco Giallini,
Francesco Grittani, Nicola Grittani, Fabio Grossi |
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Soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino |
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Fotografia: Luca Bigazzi |
Soggetto e sceneggiatura: Paolo Sorrentino |
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Costumi: Ortensia de francesco Cox |
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Musica: Pasquale catalano Paroo |
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Montaggio: Giogiò Franchini |
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Produzione: Fandango, Indigo Film, Babe Films, Medusa Film, SKY |
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Paese: Italia Anno: 2006 |
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Durata: 110' |
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Distribuzione: Medusa |
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Sito ufficiale:
www.medusa.it/lamicodifamiglia/ |
Recensione ...di Antonello Schioppa
Paolo Sorrentino esordì, senza fare una lira, cinque anni fa con lo
splendido L’uomo in più. Da
recuperare per chi lo ha perso e catalogarlo nella voce: “grandi esordi
del cinema italiano”. Si rifece di gloria, però, tre anni dopo con Le
Conseguenze dell’amore, film difficile, intimo, complesso ed elegante,
che lo portava alla ribalta con cinque David di Donatello e un’ottima
accoglienza internazionale. Il regista napoletano con due soli film
aveva già delineato fortemente una linea poetica precisa, riassumibile
con una battuta rubata alla sua ultima sceneggiatura:
“mai confondere l’impossibile con l’insolito”.
La sua scrittura infatti parte sempre da personaggi e sviluppi
imprevedibili. La storia parallela di un ex calciatore e di un cantante
cocainomane nel primo lungometraggio. Nel secondo, la storia di un
malinconico contabile della mafia esiliato in una Svizzera vitrea. Ora,
ne L’amico di famiglia, narra la storia di un usuraio, Geremia, e del
suo fido scagnozzo, Gino, country man dall’accento veneto. Entrambi
innamorati di un sogno. Il primo, la ricerca dell’amore. Il secondo, la
fuga nel Tennessee, “il posto più lontano che c’è”. Geremia è la
quintessenza della ripugnanza: brutto aspetto, cattivo odore, si muove
goffamente e fa dell’avarizia la sua prima qualità. Il secondo ha il
volto di Fabrizio Bentiviglio, il costume di un cowboy elegante, una
casa che è una vecchia roulotte affondata negli spazi aperti dell’Agro
Pontino. Una coppia di opposti, entrambi spietati e teneri al tempo
stesso, cattivi e (malinconicamente) perdenti.
Sorrentino, ancora una volta, guarda al male e al lato oscuro degli
individui, alla sporcizia dell’anima. Perché, come diceva Fellini, “la
bellezza alberga nello squallore”, così come nella bellezza spesso
alberga la mediocrità. Sorrentino infatti sceglie l’Agro Pontino non
solo per la sua architettura geometrica e fascista, che spogliata di
auto e persone si trasforma in luogo metafisico alla De Chirico. La
provincia è, soprattutto, l’immagine del “provincialismo”, della
mediocrità, del kitsch, terra di case-bomboniera riempite da famiglie
che si indebitano per il frullatore da 900 euro, il ritocco dal chirurgo
plastico o la dipendenza dal Bingo. È difficile dire chi siano i veri
cattivi, se la splendida ventenne disposta a marchette orali il giorno
delle nozze pur di unirsi ad un uomo che definisce “un coglione”, o il
personaggio di Geremia, viscido aguzzino pronto ad uscire dal ruolo di
cattivo per sentirsi dire “Ti Amo”.
Il film è visivamente notevole, personale, fatto da uno che considera il
cinema prima di tutto immagine. Narrativamente, invece, non tutto si
risolve alla perfezione. Il finale è incerto, alcuni risvolti lasciano
qualche dubbio o non trovano il giusto completamento. Ma Sorrentino è
autore sincero, mai banale, tra i più interessanti del panorama
contemporaneo. Ancora una volta la colonna sonora è degna di nota, e
segue il percorso cominciato con Le
Conseguenze dell’amore: torna Lali Puna, che apriva
splendidamente il suo precedente film, poi Sigur Ros, Notwist, Antony
and the Jonsons, Album Leaf, fino alle musiche originali di Teho Teardo,
autore già ascoltato ne Il Fuggiasco di Andra Manni.
“Ogni film dovrebbe essere una salto mortale” dice il regista. Lui ne ha
fatti tre, finora, senza ancora rompersi l’osso del collo.
...di Nino G. D’Attis
Qui
abbiamo un genio, nessun dubbio in proposito. Ci ritroviamo un
cineasta che con soli tre film all’attivo è riuscito ad imporre
una visione personale degna di nota per la forza del racconto e
l’incanto delle immagini. Impresa impossibile a molti portatori
di velleità autoriali leccati dalla critica bovina e avvezzi a
perseguire un unico obiettivo: la conservazione di un cinema
disperatamente italiota.
Qualora non ve ne
foste accorti, Paolo Sorrentino è nato a Napoli nel 1970, ha vinto il
Premio Solinas nel 1997 e nel 2001 ha debuttato nel lungometraggio con
L’Uomo in più, interpretato da Toni
Servillo, vale a dire il miglior attore italiano vivente.
Poi, nel 2004, è arrivato Le Conseguenze dell’amore, sempre con
Servillo: 5 David di Donatello, 3 Nastri d'Argento e, per quel che può
valere, un posto speciale nella top ten dei miei film preferiti di ogni
tempo (ci sono Welles e Kubrick in quella lista, ci tengo a
specificarlo). La sua terza pellicola, presentata a Cannes quest’anno, è
un noir grottesco tutto giocato intorno alla figura di
Geremia
De
Geremei, ripugnante usuraio di mezza età che ha la faccia, il
corpo e la voce di Giacomo Rizzo, classe 1939, attore teatrale da tempo
assente dal grande schermo (la maggior parte delle sue partecipazioni
cinematografiche risale agli anni ’70: Pasolini,
Salce, Gregoretti,
Bernardo Bertolucci, il Manfredi di
Pane e cioccolata). Una storia di estremi (la bruttezza, la
bellezza; l’abiezione, la dignità; l’amicizia e il tradimento) e di
questioni di soldi che generano miraggi e deliri di onnipotenza. Un
racconto che, quando sfiora le corde più drammatiche, somiglia a una
riuscita variante de Il Postino suona sempre due volte mixata
all’ironia dei fratelli Coen.
L’usuraio è l’amico di
famiglia che nessuno vorrebbe mai sentire al telefono, trovare a
sorpresa sulla porta di casa. È il pappone che controlla la nostra
prostituzione alla materia (un appartamento di lusso, un paio di tette
nuove, una cerimonia di matrimonio impeccabile), l’anima nera che
concede e strappa, il demone che nutre e riduce alla fame. Un cancro. Un
parassita. Anche un uomo solo, per la verità: dipendente dai dolci,
legato morbosamente alla madre inferma (Clara Bindi), condannato a
spiare dalla finestra un gruppo di giovani appassionate di pallavolo,
poi ad innamorarsi perdutamente di Rosalba (Laura
Chiatti), la più bella del paese. Si è fatto una cultura
leggendo i libri del Reader’s Digest e guardando documentari sul
mondo animale (rettili, più che altro). La sua attività di facciata è
una sartoria con un pugno di operaie dalla faccia triste, sicuramente
sottopagate, sfruttate fino all’osso.
Se sgarri, Geremia ti
porta via qualcosa, ti rompe le dita, ordina ai gemelli Contessa di
eseguire la tua condanna a morte. Geremia è tirchio, cinico, bastardo
dentro. Frugando tra le sue particelle cromosomiche non sarebbe
difficile trovare qualcosa dei più turpi personaggi di Dickens e delle
macchiette che affollano l’universo a fumetti di Alan Ford, eppure...C’è
forza in un regista che riesce a trasmettere oscurità e tenerezza, riso
e commozione. Perché, strano a dirsi, persino un fetente come Geremia
riesce a smuoverti qualcosa dentro. Sarà che l’amore ha le sue
conseguenze, sarà che ballare è bello ma con moderazione, come dice
Fabrizio Bentivoglio nei panni di
Gino, il countryman dell’Agro Pontino.
Ancora, a proposito
del cast artistico: intorno a Rizzo e Bentivoglio si muove un coro
magnifico di attori perfettamente in parte, da Marco Giallini a Luigi
Angelillo, da Barbara Valmorin a Roberta Fiorentini. Facce e gesti,
fantasmi che danzano seguendo il ritmo della storia.
L’Amico di famiglia
è indiscutibilmente un grande romanzo per immagini realizzato da un
team (Luca Bigazzi, direttore della fotografia; Teho Teardo, autore
delle musiche originali; Giogiò Franchini al montaggio) al servizio di
un narratore completo, un regista che attraverso le sue opere afferma di
aver superato gli annosi limiti del cinema made in Italy. Ora, per
favore, levatevi il cappello da cowboy e fate un inchino.
Nino G. D’Attis
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