Titolo originale: id. |
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Regia: David Lynch |
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Interpreti: Laura Dern, Justin Theroux, Jeremy Irons, Harry Dean
Stanton, Peter J. Lucas, Karolina Gruszka, Diane Ladd, Grace Zabriskie, Jan
Hencz, Julia Ormond, Emily Stofle, Jordan Ladd, Kristen Kerr, Kat Turner,
Terryn Westbrook, Jamie Eifert, Heidi Schooler, Masuimi Max |
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Soggetto e sceneggiatura: David Lynch |
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Fotografia: Odd-Geir Sæther |
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Scenografia: Christina N. Wilson |
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Costumi: Karen Baird, Heidi Bivens |
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Musica: David Lynch |
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Montaggio: David Lynch |
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Produzione: Studio Canal |
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Paese: USA/Polonia/Francia Anno: 2006 |
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Durata: 172' |
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Distribuzione: Bim Film |
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Sito ufficiale:
http://www.inlandempirecinema.com/ |
Senza un vero copione,
improvvisando scena per scena, nel tentativo di calarsi dentro
un’indagine personale, ossessiva, intorno a "un mistero su una donna in
pericolo." La situazione instabile sfruttata a fini poetici. L’angoscia
dell’incertezza che diventa gioco straniante/esaltante ponendosi al di
là, facendo saltare le reti di sicurezza, i limiti del reale e
del tempo ciclico,
dell’evasione come visione facile, addirittura periferica della realtà.
L’eccedenza. L’inversione
della struttura. Poi, necessariamente, la demolizione di ogni struttura.
«Non si capisce niente. Dentro
‘sto film non si capisce proprio niente…»
Non è vero. Un’affermazione di
questo tipo implica un’infausta chiusura, il rifiuto di immagini che ci
osservano, ci prendono in ostaggio, esprimono una forza non meno violenta di
quella che potremmo trovare, poniamo, in un testo come The Future di
Leonard Cohen: “Give me back my
broken night, my mirrored room, my secret life, it's lonely here”.
E,
ancora:
“Things are going to slide, slide in all directions.
Won't be nothing. Nothing you can measure anymore”.
Caos apparente: più lo neghi, più ti sconcerta, ti lascia prigioniero di una
quotidianità mediocre, di una limitatezza propria dello spettatore medio del XXI°
secolo.
Lynch gioca con le
telecamerine digitali. Lynch inquadra il ghigno dei mostri. Lynch remixa
Bergman, Godard, Carmelo Bene e Fellini. Lynch mette in scena i tempi morti
delle brave ragazze e quelli delle puttane (se è vero che tutti i suoi film sono
femmine, INLAND EMPIRE è quello in cui si mostra la fica e l’anima frattalizzate
nell’osceno
intelligibile del possesso e della libertà individuale, nel gioco
reversibile tra il maschio e la femmina).
Girato in digitale tra Łódź,
Polonia e Los Angeles (il titolo fa riferimento ad un’area nella zona est della
città californiana) usando in parte fondi propri (e di Mary Sweeney,
collaboratrice di lunga data del regista), in parte finanziamenti erogati dalla
casa di produzione francese Canal Plus, INLAND EMPIRE (tutto maiuscolo) è di
sicuro l’opera lynchiana più faticosa per lo spettatore, la parete più ripida da
scalare, sequenza dopo sequenza. Non è il genere di film che ti verrebbe voglia
di rivedere immediatamente (tuttavia lo farai, lo faremo: magari non nel buio di
una sala cinematografica ma in sogno, dove tutta questa materia, questo lungo,
narcotico ragionamento sui paradossi spazio-temporali, sulle vite che potresti
aver vissuto, sulle porte che dovresti o non dovresti aver aperto, farà
sicuramente capolino). Partire da un intreccio e demolire ogni certezza, ogni
luogo comune del medesimo ponendo l’accento da un lato sull’idea del tragico che
si concentra intorno al significato dell’esistenza umana come conflitto fra
necessità e libertà, dall’altro sulla sospensione del tragico stesso.
Ancora Hollywood, come in
Mulholland Drive: la fabbrica dei
sogni è il luogo in cui possono consumarsi i più lancinanti incubi del reale, la
selva oscura nella quale Nikki Grace (Laura Dern), attrice di successo chiamata
dal regista Kingsley Stewart (Jeremy Irons) sul set di un film maledetto, trova
una grande occasione e si smarrisce fino a raggiungere il bordo della follia.
Grace Zabriskie, già madre disturbata di Laura Palmer in
Twin Peaks, è l’oracolo che all’inizio del film piomba
nella lussuosa abitazione di Nikki per preannunciarle l’esperienza più
sconvolgente della sua vita di donna e di artista: altri mondi centrifugati in
un ciclo in cui si finisce sempre per essere nello stesso punto. Ci vuole
coraggio per cambiare. Devi camminare e scrutare nel buio (nelle pieghe/piaghe
della materia mitica), ascoltare il coro di voci nella tua testa, entrare a
piedi scalzi nei campi del non-detto, del folle, del marginale e (letteralmente)
farti bucare lo stomaco.
INLAND EMPIRE è una ferita,
una scarnificazione necessaria, catartica: c’è sangue, e il sangue è una spia
che ti dice che sei ancora vivo e stai anche morendo:
“Tutto il reale è residuale”,
dice Baudrillard. “e tutto
quello che è residuale è destinato a ripetersi indefinitamente nel fantasma”.
Nino G. D’Attis
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