Titolo originale: Body of lies |
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Regia: Ridley Scott |
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Interpreti: JLeonardo DiCaprio, Russell Crowe, Mark Strong,
Golshifteh Farahani, Oscar Isaac, Ali Suliman, Alon Abutbul, Vince Colosimo,
Simon McBurney, Mehdi Nebbou, Michael Gaston, Kais Nashif |
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Sceneggiatura: William Monahan, dal romanzo omonimo di David Ignatius |
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Fotografia: Alexander Witt |
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Scenografia: Sonja Klaus |
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Costumi: Janty Yates |
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Musica: Marc Streitenfeld |
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Montaggio: Pietro Scalia |
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Produzione: De Line Pictures |
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Paese: USA Anno: 2008 |
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Durata: 128" |
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Distribuzione: Warner
Bros |
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Sito ufficiale:
http://bodyoflies.warnerbros.com/index.html |
Da sempre considero
Ridley Scott un buon mestierante che all’alba della sua carriera è
riuscito a centrare un unico film degno di entrare a buon diritto nella
storia del cinema. Quel film è Alien, uscito due anni dopo
l’esordio nel lungometraggio con I Duellanti e tre anni prima del
sopravvalutato Blade Runner. Da allora il mio interesse per il
regista inglese si è risvegliato poche volte: nel 1989 con Black Rain,
interpretato da Michael Douglas ed Andy Garcia e più di recente
con l’ottimo American Gangster
e quest’ultimo Body of Lies.
Tutto il resto, quando non è spazzatura, sa di marchette o di
allenamento per la grande corsa all’Oscar, quindi tenetevi pure
Legend, Thelma & Louise, 1492: Conquest of Paradise,
Le Crociate e soprattutto Il Gladiatore.
Detto questo, la doppietta
puntata agli occhi dello spettatore tra il 2007 e il 2008 non è male, mi
spingerei addirittura ad ipotizzare un nuovo momento fondativo nella poetica del
cineasta se non ci fosse di mezzo il progetto annunciato di
Nottingham,
ennesimo polpettone sulle gesta di Robin Hood: basta, non se ne può più! Scott
non soffre dei pentimenti (“Ho fatto un film commerciale, adesso mi butto su
qualcosa di impegnato”), non ha il malcelato complesso d’inferiorità di
Spielberg. È un artigiano capace di conservare una sensibilità tipicamente
europea soprattutto quando ha l’opportunità di affrontare un progetto più
adulto.
Dentro Body of Lies,
liberamente tratto da un romanzetto senza infamia e senza lode del
giornalista del Washington Post David Ignatius, ci sono Leonardo Di
Caprio e Russel Crowe, due ex bellocci di celluloide che hanno finalmente deciso
di recuperare gli anni perduti alla scuola dei veri attori. Il primo, in
particolare, ha firmato una liberatoria per lasciarsi sfregiare il faccino dal
reparto make-up (impresa che non era riuscita neppure a Scorsese ai tempi di
Gangs of New York); il secondo, a onor del vero, aveva già mostrato panza e
buona volontà proprio in American Gangster, al fianco del gigante Denzel
Washington.
La storia, sceneggiata da
William Monahan, ci porta in Iraq (scenario di guerra che ad Hollywood e
dintorni ha ormai sostituito il Vietnam) ma parte da una bomba che esplode in un
caseggiato di Manchester, UK. Crowe è Ed Hoffmann, spregiudicato, machiavellico
senior della CIA che da da Langley, Virginia, aiutato dagli ultimi ritrovati in
materia di diavolerie tecnologiche, dirige a distanza le mosse di Ferris (Di
Caprio), il suo migliore agente a caccia di basi di Al-Qaeda nelle zone calde
mediorientali. In gioco c’è la cattura di Al-Saleem, terrorista che ha
intenzione di diventare in breve tempo più famoso di Osama Bin Laden. Gloria
mediatica: puoi averne un po’ partecipando ad un reality in mezzo ad una
comitiva di deficienti, puoi ottenerne molta di più seminando morte e
distruzione in nome di un ideale.
Ferris indaga, cerca contatti
che possano fornirgli informazioni utili ai fini della missione: fruga nel
deserto, in mezzo a quei granelli di sabbia che si sporcano facilmente di
sangue, esamina gli occhi impauriti di un candidato al martirio come testimone
della Fede. Hoffmann è il manipolatore, il burattinaio in abiti da pacioso padre
di famiglia che ha imparato a servire bene il suo paese ballando il tip tap sui
carboni ardenti: c’è una Causa da sostenere. La Causa è importante,
fondamentale, impermeabile agli assalti della morale. Per arrivare a tanto le
menzogne, gli inganni del titolo hanno un peso specifico, servono ad alterare
non solo la percezione che l’avversario ha della realtà ma anche l’idea di
realtà che ha l’uomo comune mentre guarda un servizio televisivo dedicato ad un
feroce attentato terroristico. Ecco allora che Body of Lies si configura
come un’opera interessante sul tema della gestione della guerra al terrorismo. È
un action con bombe, inseguimenti, pallottole che fischiano da tutte le parti,
ma anche un film sofisticato alla maniera della serie dedicata a Jason Bourne
o di The Hunting Party di Richard Shepard. Molta adrenalina e molto
cervello (quest’ultima qualità non è stata apprezzata dagli spettatori italiani
che stavolta hanno fatto pollice verso anche al loro amato Russell Massimo
Decimo Meridio Crowe). Complotti, giochi sporchi, tradimenti e poche ruffianerie
(il finale sembra lieto, invece…). Io spero che Ridley Scott rinunci a giocare
nei boschi con Robin Hood.
(N.G.D’A.)
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