Titolo originale: id. |
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Regia: Paolo Sorrentino |
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Interpreti: Toni Servillo, Anna Bonaiuto, Piera Degli Esposti, Paolo
Graziosi, Giulio Bosetti, Flavio Bucci, Carlo Buccirosso, Giorgio Colangeli,
Alberto Cracco, Lorenzo Gioielli, Gianfelice Imparato, Massimo Popolizio,
Aldo Ralli, Giovanni Vettorazzo |
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Soggetto: Paolo Sorrentino |
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Sceneggiatura: Paolo Sorrentino |
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Fotografia: Luca Bigazzi |
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Scenografia: Lino Fiorito |
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Costumi: Daniela Ciancio |
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Musica: Teho Teardo |
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Montaggio: Cristiano Travaglioli |
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Produzione: Indigo Film, Lucky Red, Parco Film, Babe Film |
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Paese: Italia/Francia Anno: 2008 |
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Durata: 110' |
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Distribuzione: Lucky Red |
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Sito ufficiale:
http://www.luckyred.it/ildivo |
È sufficiente l’incipit
de Il Divo per capire che Paolo Sorrentino, alla quarta prova da
regista, è in gran forma: prima, il viso di Andreotti alle prese con
l’agopuntura (Hellraiser?), poi, sulla hit da dancefloor Toop
toop dei francesi Cassius, ecco che sfilano le immagini frenetiche e
lucide di alcuni uomini che stanno per morire: Pecorelli, Calvi,
Sindona, fino allo stop improvviso di un’auto che finisce nel vuoto ed
esplode: è la bomba che uccide il giudice Falcone. Di colpo, silenzio in
sala (la morte di Falcone fa ancora effetto): Il Divo sta per
cominciare.
Dopo
Le Conseguenze
dell’amore e L’amico di famiglia, senza dimenticare l’esordio de
L’uomo in più, Paolo Sorrentino non poteva trovare sfida migliore:
raccontare gli ultimi anni di governo del Divo Giulio Andreotti e, per
estensione, parte del suo passato più o meno recente. Dopo l’alienato Titta Di
Girolamo, anonimo impiegato mafioso, dopo il ripugnante usuraio Geremia, ecco un
personaggio perfetto per il regista napoletano: un politico misterioso, ambiguo,
amante della battuta secca, della frase ad effetto. E, soprattutto, pieno di
segreti.
Se l’inizio del film è
pirotecnico, pop, e fa il paio con l’incipit fantascientifico del contemporaneo
Gomorra, il resto della pellicola è un puro viaggio acido: didascalie che
spuntano dal nulla, piani sequenza allucinati che dilatano il tempo insieme a
ralenti improvvisi, montaggio frenetico che lo spezza. E una fotografia barocca
(Luca Bigazzi), cupa, che s’illumina all’improvviso. Se qualcuno si aspettava un
documentario sulla vita del sempiterno Giulio, o peggio ancora delle risposte,
ha sbagliato film: «le cose sono un po’ più complesse» spiegherà lo stesso Divo
al povero Eugenio Scalfari durante il racconto.
E dunque: il film fa della
storia ciò che la storia è, in realtà, cioè qualcosa che è stato e perciò, per
quanto la si possa indagare, rielaborabile. Andreotti è una figura
cinematografica, pensiamoci bene, pensiamoci fra cento anni:
Sorrentino pare
averlo capito già da ora e ne fa il perfetto incrocio tra il rassegnato Di
Girolamo e il ripugnante Geremia (del resto, se il film è stato premiato a
Cannes da gente che non sa nemmeno chi è Andreotti…). Un freak che sa come
conservare il potere, per il quale la politica è pratica quotidiana come un
lavoro qualsiasi, un Nosferatu incapace di riconciliarsi con se stesso per via
della perdita di Aldo Moro (la scena in cui si ferma per strada tra
l’incredulità della scorta e alza la testa al cielo con le mani sui fianchi)
eppure conscio che fra bene e male la linea è troppo sottile. E, soprattutto, sa
che non sta a lui operare distinzioni manichee. Lui è solo uno strumento. Lui sa
solo come si sta al mondo.
Altro strumento è la
corrente andreottiana della Democrazia Cristiana. De Mita, Ciarrapico, Lima,
cardinali e faccendieri: presentati come in un western, con un ralenti
improvviso a palazzo con tanto di didascalie e soprannomi, didjeridoo e fischio
del potere come colonna sonora. Non è Tarantino: è solo grottesco. Ed è questo
il miglior modo per interpretare Il Divo.
Il Divo
è una farsa sulla politica italiana. Né tragedia né commedia: non punta al cuore
come Le conseguenze dell’amore o
L’Amico di famiglia; non è un
film sulla natura umana, abietta o meschina come anche in L’uomo in più.
È un film sull’assurdità del potere fine a se stesso, di per sé inconoscibile,
per niente indagabile. Non un solo segreto di Andreotti viene svelato, solo
supposizioni: e Sorrentino ci gioca tanto, come quando il gobbo Servillo, nelle
vesti del freak Andreotti, s’avvicina all’orecchio di Cossiga: «devo svelarti un
segreto», dice. C’è da scommettere sul silenzio che cala improvviso in tutte le
sale in cui il film viene proiettato. L’attenzione è al culmine. E Andreotti
rivela, dopo qualche esitazione: «ho amato Mary Gassman, da giovane». Tutto qua.
Il personaggio fa il paio col
vecchio Di Girolamo, seriosamente fissato coi segreti, anche perché a Sorrentino
piacciono i caratteri che avanzano parlando per sentenze, frasi secche e
proverbi (per qualcuno questo era il limite delle sue sceneggiature): Andreotti
è sempre più il suo uomo. Il grottesco, il surreale, c’è, ma è intorno: il divo
Giulio è imperscrutabile, in qualche modo nobile, mentre è il resto della
politica italiana che si perde tra mafia, festini (un Pomicino/Carlo Buccirosso
d’annata), manette in parlamento e tifo da stadio. Andreotti sa che le cose sono
«più complesse», insondabili, sa che agisce su un terreno che sta per franare.
Tuttavia non può fare a meno di contare su ciò che ha intorno. Moglie inclusa
(Anna Bonaiuto): ma anche lei deve arrendersi e, in un crescendo di sequenze
incredibili, limitarsi a stringere la mano al Divo, a casa, davanti a un
concerto di Renato Zero in tv, dopo aver appreso che il marito è indagato per
associazione mafiosa.
La politica italiana degli
anni ’90 (e non solo) sa molto di quella degli esercizi spirituali del Todo
Modo di Sciascia, per Sorrentino. Non c’è un solo punto di vista
attendibile: se in Gomorra il regista Garrone rinuncia volontariamente
allo sguardo soggettivo, cioè la vespa di Saviano (un Nanni Moretti
rovesciato?), qui la telecamera vaga senza appigli per fermarsi sempre e
soltanto sull’unica certezza: l’espressione deforme e imperturbabile di Servillo/Andreotti.
Non è cinema semplicemente impegnato come in Virzì, Tullio Giordana (eppure le
implicazioni morali che mette in campo sono comunque tante), non c’è
rielaborazione romantica come in Moretti. C’è una potenza visuale che ne fa più
un affresco rock che pop. Certo, la colonna sonora è pop, tra elettronica e
Vivaldi, Teho Teardo è un maestro, ma… Ma il pop, in genere, amplifica, mitizza,
esorcizza, mentre il rock morde. E questo film morde, esattamente come Todo
Modo. Morde perché fa a pezzi la politica italiana che fu senza uno
schieramento di forze ideologiche, ma con la potenza delle immagini, con lo
spaesamento da trip acido che segue ai movimenti di macchina, ai piani sequenza,
al montaggio forsennato e incasinato nella parte delle rivelazioni dei
collaboratori di giustizia siciliani (e poteva essere altrimenti?): la parte in
cui è più chiaro che Sorrentino non vuole dirci come stanno le cose, ma
semplicemente che queste sono molto più che complesse, e questo è il pasticcio
in cui ci ritroviamo oggi. È del linguaggio che si nutre il film, è il
linguaggio (piuttosto nuovo per il cinema italiano) che ne dà la misura e il
senso.
C’è altro da dire? Sì: se
Il Divo ha una potenza visuale sconcertante, solo il tempo potrà dire se il
film, a dispetto dei precedenti del regista campano, è figlio di un Sorrentino
(già?) di maniera. Per adesso c’è solo da godersela: il cinema italiano, tra
Garrone, Maioli (La ragazza del lago) e lo stesso Sorrentino gode di
ottima salute; e la storia italiana è materia interessante, anche quando se ne
infischia di essere condivisa.
Marco Montanaro
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