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GRAN TORINO

GRAN TORINO
Titolo originale: id.
Regia: Clint Eastwood
Interpreti: Clint Eastwood, Christopher Carley, Bee Vang, Ahney Her, Brian Haley, Geraldine hughes, Dreama Walker, Brian Howe, John Carroll lynch, William Hill, Brooke Chia Thao, Chee Thao, Choua Kue
Sceneggiatura: Nick Schenk
Fotografia:  Tom Stern
Scenografia: John Warnke
Costumi: Deborah Hopper
Musica: Kyle Eastwood, Michael Stevens
Montaggio:  Joel Cox
Produzione: Double Nickel Entertainment, Gerber Pictures, Malpaso Productions, Media Magic Entertainment, Village Road Pictures, Warner Bros.
Paese: USA  Anno: 2008
Durata:  116'
Distribuzione:  Warner Bros
Sito ufficiale: www.thegrantorino.com

Ogni volta la solita storia. Si accendono le luci e mentre scorrono i titoli di coda senza avere la forza di leggerli, si rimane impietriti sulla propria poltrona con i brividi addosso ed in balia delle emozioni. Gli occhi sono lucidi e si cerca maldestramente di coprirli, il cuore impazza e la mente cerca di rispondere alle solite domande che un film di Clint Eastwood scatena. Ma come fa? Come si può essere così chiari ed incisivi nell’esporre una riflessione sulla vita e la società? Come è possibile che ad ogni benedetto film di Eastwood ci si riduca come bambini commossi da una tragica favola e, allo stesso tempo, come adulti spaesati e privati delle proprie certezze? Come sia possibile è forse arduo definirlo, ma riflettere sulla magia del cinema eastwoodiano, sulla sua forza evocativa nell’apparente sobrietà dell’immagini, sulla sua modernità nascosta all’interno di un linguaggio sbrigativamente liquidato come classico, è quanto di più stimolante possa capitare ad un critico cinematografico.

   Ad una prima visione i film di Eastwood sembrano girati con spudorata semplicità, l’inquadratura, o meglio, il punto di vista da cui il regista sceglie di raccontare la scena, sembra così “normale” da apparirci quasi amatoriale, in pratica, di facile lettura. La materia filmica, nell’atto della visione, non scatena nello spettatore il puro piacere estetico, eppure, terminato il film, si avverte fisicamente una sorta di estasi dei sensi, simile se non superiore a quando si assiste ad una talentuosa esibizione formale (ad esempio nel piano sequenza iniziale dell’Infernale Quinlan). Per capire come ciò possa accadere, è forse il caso di soffermarci sull’origine dell’inquadratura eastwoodiana.

   Evidentemente per il maestro americano l’immagine è al servizio del racconto e non viceversa (come ad esempio in Tarantino), per questo nello scegliere il punto da cui inquadrare, la domanda a cui Eastwood probabilmente risponde è: quale immagine descrive meglio l’azione? Non cerca l’immagine più bella dunque, non la soddisfazione dello sguardo, bensì, la chiarezza del discorso e, di conseguenza, la soddisfazione dell’intelletto e, a voler essere più spirituali, dell’anima. Il problema è che scegliere la migliore inquadratura possibile al servizio della storia, è complicato quanto trovare l’immagine esteticamente più bella (ammiccante verso lo spettatore?). Di fronte alla consapevolezza artistica dei suoi film e alla scorrevolezza del suo racconto, non si può che rimanere puntualmente esterrefatti.  Eastwood trova sempre l'inquadratura più assecondante rispetto ai contenuti dell'opera, così da raggiungere la sua meta artistica e, evidentemente per vie diverse dall'esaltazione della forma, quel piacere della visione che è lo scopo ultimo di ogni grande regista. Per questo è riduttivo definire Eastwood un autore dallo stile classico, cioè colui che attinge da un vocabolario dell'immagine essenziale e funzionale, bisognerebbe parlare, piuttosto, di un regista dallo stile eterno, in grado di cogliere in ogni inquadratura il senso del personaggio/persona ed in ogni film il senso del racconto/vita.

In questo senso Gran Torino è forse il film più esplicativo di tutto questo discorso. Non aspettatevi niente di barocco, nulla che vi ammali particolarmente, nessuna puerile concessione allo spettacolo. Il film è calibrato e misurato nel suo incedere verso lo scopo ultimo di cui sopra, quel piacere della visione ottenuto grazie al gusto del vero piuttosto che del bello.

   Come già in passato (Million Dollar Baby) anche la storia di Gran Torino si genera sull'educazione sentimentale di un ragazzo altrimenti destinato ad una vita difficile, sulla discrepanza tra le vecchie generazioni, incapaci di trasmettere i propri valori, e le nuove, ma soprattutto, su Walt Kowalski, l'ennesimo personaggio eastwoodiano che per fare del bene ha dovuto dimorare nel male, lo stereotipo, se vogliamo tipico dell'amato genere western, del peccatore/santo. Un uomo reduce della guerra in Corea che odia genericamente gli orientali, burbero intollerante che mal sopporta le intrusioni nella sua proprietà (in realtà nella sua vita!), lavoratore ormai in pensione reduce delle catene di montaggio della Ford e gran bevitore di birra.  Un americano tipico? No, in realtà è di origine polacca ed è solo un uomo ferito dalla vita che ritroverà la voglia di vivere nella certezza che se hai un buon motivo, in fondo, si può anche morire in pace.

   Per dirla con le parole del barbiere di Kovalski (un immigrato italiano interpretato da John Carroll Lynch), se volete vedere come un fottuto polacco razzista riesca ad indurvi al pianto, come può una vecchia automobile diventare la rappresentazione visiva del bene, dell'etica e della morale, se volete riflettere sulla nostra società ed avere un suggerimento sul come starci dentro al meglio, beh! fatevi un giro sulla Gran Torino di Eastwood.

 

Davide Catallo