Caro Tommaso Pincio,
in una recente
intervista, alla domanda “Il libro (di un altro) che avresti voluto
scrivere” ho risposto senza esitare
La Ragazza che
non era lei. E ogni volta che
si annuncia la pubblicazione di un tuo nuovo lavoro, penso con grande
ammirazione al contributo che i romanzi che scrivi stanno donando alla
letteratura prodotta in Italia attraverso storie bellissime sostenute da
una prosa viva, profonda, condita di humour amaro: lampi di pensiero, di
pura ispirazione contro la cappa di mediocrità che ristagna in libreria.
È la tua capacità di raccontare il mondo in cui viviamo, l’umanità con
i suoi piccoli e grandi difetti, con il suo fardello sempre più pesante
di paure, nevrosi, dolori a incantarmi.
Il seme gettato nel
1999 con M., l’esordio pubblicato da Cronopio, è diventato un
albero forte e rigoglioso proprio nelle ultime due prove. Ricordo il
De Kaard,
cacciatore di stencil a Neu-Berlin, il lavoro sul tempo narrativo, il
personaggio del prestencil (un bambino di nome Tommaso Pincio), i
rimandi stratificati ad altre opere letterarie come Un oscuro
scrutare di Philip K. Dick o L'Arcobaleno della gravità del
tuo quasi omonimo Thomas Pynchon.
Ricordo di aver letto quel tuo primo libro ascoltando e riascoltando una
cassetta che conteneva gli album Thirst e Digital Soundtracks
dei Clock DVA.
Con Cinacittà
ci hai appena consegnato un noir spostato nel futuro ma gravido delle
fobie del presente: gli altri, gli stranieri, i cinesi, quelli che ci
stanno invadendo, i «barbari del terzo millennio», quelli che calamitano
l’indignazione che dovremmo provare verso altre cose, quelli che rendono
legittima la nostra aggressività. Hai rinchiuso un uomo nel carcere di
Regina Coeli, uno degli ultimi romani rimasti nella Caput dopo il grande
esodo legato all’aggravarsi dei cambiamenti climatici. La città che hai
immaginato è una fornace che brulica di vita solo di notte riportando
alla mente la metropoli avveniristica vista in Nirvana di
Gabriele Salvatores. Il Tevere non è più un fiume ma un fossato riarso
adattato a discarica. Il fastoso Grand Hotel Excelsior è diventato un
condominio decrepito gestito dal signor Ho (e i cinesi pensano
erroneamente che la la suite 541 sia stata il teatro del suicidio di
Kurt Cobain). Ci sono fumerie d’oppio (le frequenta quel fricchettone
che il protagonista si ritrova suo malgrado come avvocato); in un go-go
bar chiamato La Città Proibita (sorto al posto di un negozio di abiti da
sposa a Piazza Vittorio), gli uomini si innamorano perdutamente di
puttane orientali che ancheggiano al ritmo di vecchi successi pop.
Signorine tossiche dagli occhi impiastricciati di nero per mascherare le
occhiaie. Carne. Merce. Simulacri di spose e madri: guai a ingannarle,
pena l’evirazione.
La Roma di Fellini,
Mastroianni, Flaiano, Pasolini, persino quella del lancio delle monetine
a Bettino Craxi davanti all'hotel Raphaël è solo un ricordo affidato
alle pagine di Wikipedia, alla cultura enciclopedica del misterioso Wang
e alla mente di questo tizio svogliato, avvezzo all’indifferenza
(soprattutto nei riguardi del proprio tragico destino), accusato
dell’omicidio della sua amante Yin, giovane e magnetica prostituta
cinese. Pure, nel corso della sua lunga confessione autobiografica (che
a tratti riporta alla mente quella del tabagista Cosini ne
La Coscienza di Zeno di Svevo) l’io narrante riflette
su alcune caratteristiche di Roma e dei romani che non cambieranno mai:
“A Roma, prima o poi ci scappa il morto.
È scritto nel codice genetico di questa città. Dalle nostre parti ha
funzionato sempre così: prima si discute, poi ci si scanna. Romolo e
Remo, per esempio. Discutevano su tutto. Su dove fondare questa fogna di
città, sul nome che dovevano darle e su un sacco di altre cose.”
E, qualche rigo più sotto: “L’altra
caratteristica saliente di Roma è che è un troiaio.”
Leggi frasi del genere
e sorridi. Ci rifletti su una frazione di secondo e ti ritrovi
assolutamente d’accordo: sì, l’Urbe, la Caput, la “temibilissima
chimera” o in qualunque altro modo la si voglia chiamare è davvero un
troiaio. Sempre che tu viva a Roma, si capisce. Un turista non potrebbe
mai sottoscrivere (perciò continuate pure a rifilargli la vecchia
versione della storia della Lupa, via Veneto, l’Isola Tiberina, Campo
de' Fiori, etc.). Neppure il sindaco in carica, presumo: arduo figurarsi
un rispettabile primo cittadino pronto a dichiarare pubblicamente che in
effetti, pensandoci bene, la sua città è un covo di donne di malaffare.
Metaforicamente o in senso letterale, you know…
Non voglio dire di più
sulla trama, su ciò che questo romanzo meraviglioso e attualissimo,
costruito con singolare perizia narrativa riesce a suscitare nel lettore
catturato dal lungo flashback che comincia con la domanda: “Ma i romani
esistono davvero?”. Sembra il titolo di un reportage per un qualsiasi
settimanale ad alta tiratura (beh, il tuo primo attore non arriva forse
a spacciarsi per un giornalista?), invece è l’incipit di un viaggio
poetico e infernale intorno all’immutabilità di certe imperfezioni
umane, il memoriale di un mammifero negligente e in esilio nel suo
stesso mondo, poi ancora un libro che parla di derive, patologie, di
dubbi e malintesi, di sconvolgimenti non solo climatici. Non dirò di
più, a parte un sentito Grazie a te, ancora una volta, Tommaso Pincio.
Nino G. D’Attis
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