Correva l’anno 1991,
quando Hunter S. Thompson pensò di pubblicare tre racconti in
un’edizione a tiratura limitata: 326 copie in tutto, 26 delle quali con
copertina in pelle. I tre gioielli contenuti nella breve raccolta erano
Mescalito; Morte di un poeta e
Screwjack, ora
tradotti in Italia da Baldini Castoldi Dalai, editore che ha il grande
merito di aver presentato al pubblico di casa nostra anche Cronache
del rum (2007). Un bel rischio, e una bella sorpresa, non c’è che
dire.
Gran parte del lavoro
di Thompson è ancora sconosciuto ai lettori italiani, da
The Curse of
Lono (1983) ai quattro volumi dei Gonzo Papers, apparsi negli
Stati Uniti tra il 1979 ed il 1994, poi The Fear and Loathing Letters
(altri due tomi usciti tra il 1997 e il 2000, mentre un terzo,
The Mutineer: Rants, Ravings, and Missives from the Mountaintop
1977-2005, dovrebbe vedere la luce in America proprio nel 2008); Kingdom
of Fear: Loathsome Secrets of a Star-Crossed Child in the Final Days of
the American Century (2003) e Hey Rube: Blood Sport, the Bush
Doctrine, and the Downward Spiral of Dumbness Modern History from the
Sports Desk, del 2003. Anche se volessimo fermarci ai racconti,
sappiamo che fin dagli anni ’50, lo scrittore di Louisville pubblicò
sulle riviste più disparate un gran numero di short stories.
Gli sfaccendati
lettori di casa nostra dovrebbero leggere Thompson, tra i massimi
esponenti della cultura americana. Ignorarne l’esistenza, la portata
devastante del suo lavoro, significa consegnarsi ad altri decenni di
ignoranza. Esagero? Neanche per idea. In una nazione che, tanto per
cominciare, non conosce Giancarlo Fusco e che considera giornalista
Bruno Vespa, niente è davvero esagerato.
Anarchico,
iconoclasta, ingestibile dalle redazioni dei giornali che si onorarono
di averlo tra le loro firme; prematuramente scomparso nella sua
residenza di Woody Creek, Colorado, il 20 febbraio del 2005. Paul
William Roberts, in un suo articolo sul Globe and Mail del 26
febbraio 2005 sostiene che al momento della dipartita Thompson aveva per
le mani una storia sugli attacchi al World Trade Center dell’11/09/2001
e che, scavando un po’, pare avesse trovato una prova sul crollo delle
torri dovuto non agli aerei dirottati, piuttosto alle cariche esplosive
sistemate alle loro fondamenta.
Leggenda?
Forse H.S.T. non aveva
mai dimenticato il suo stesso postulato: meglio del sesso c'è solo il
potere. Meglio del sesso è diventare Presidenti degli Stati Uniti
d’America.
E anche qui, a pagina
32 di questo delizioso carnet di storielle: “Nixon ha spedito la legione
Condor a Berkeley…sorridi…e dai rilassati, sorseggia quel drink.”
La verità può essere
scomoda, può apparire addirittura folle, magari frutto di un brutto
trip, ma è sempre necessaria.
Immergersi nelle sue
pagine, nei suoi deliri, è un’esperienza imprescindibile poiché Thompson
(o Raoul Duke, Dr. Gonzo, Dr. Duke, in qualunque modo vogliate
chiamarlo) è pensiero lanciato a 400 Km/h per sfidare i limiti della
deontologia giornalistica, del naturale ordine delle cose nella
scrittura.
A Thompson, come a
Lester Bangs, Norman Mailer, Nick Tosches, Tom Wolfe, Truman Capote, il
mondo deve, tra gli anni ’60 e ’70, il rinnovamento del ‘new journalism’,
definizione che negli ultimi due decenni dell'Ottocento aveva indicato
un giornalismo divertente, focalizzato sulle storie, iniziato dal
World di Joseph Pulitzer (1883) e dal Journal di Willliam
Randolph Hearst (1895). Il contributo del nostro eroe alla causa fu il
‘gonzo journalism’, stile di scrittura che mixa giornalismo
convenzionale, impressioni soggettive e trovate narrative per generare
un personale punto di vista su fatti e circostanze. Buttarsi a
capofitto: nel posto giusto, al momento giusto, più o meno. E se non sei
nel posto giusto, al momento giusto, al diavolo tutto, puoi sempre
inventarti qualcosa. DEVI inventarti qualcosa: sei un uomo che ha stile.
Sei un cazzone che, oltre al fegato, si ritrova il serbatoio pieno di
ironia.
Sei come Iggy Pop quando canta:
“I am the passenger and I
ride and I ride / I ride through the city's backsides / I see the stars
come out of the sky / Yeah, the bright and hollow sky / You know it
looks so good tonight…”
E siccome appartieni alla stessa razza dell’Iguana, sai
che un seminario di scrittura autobiografica nato con l’intento di
favorire il riconoscimento e la promozione delle capacità narrative
delle persone, se non è merda fritta poco ci manca. Tu puoi fare di
meglio. Tu sei quello che, a bordo di una magnifica Chevrolet
decappottabile rossa e in compagnia di un avvocato samoano completamente
sciroccato, ha visto il lato pacchiano del Sogno Americano in una corsa
motociclistica nel deserto e poi a Las Vegas, la città dei balocchi dove
Bugsy Siegel inaugurò nel 1946 il Flamingo Hotel.
Pensateci un attimo:
se l’Italia è un posto tristemente affollato di Anselme che salvano
pappagalli dai cassonetti della spazzatura, di romanzi giovanili di
formazione chiusi in appartamenti da eterni post-adolescenti, la colpa è
anche di tutte le scuole, workshop, itinerari di lettura, corsi online o
per corrispondenza che continuano ad ignorare cose come:
“Una luce
fantastica ricopre tutto, lucidando e incerando con una patina
speciale…e l’effetto sul fisico ricorda la prima mezz’ora in acido, una
specie di ronzio diffuso, la sensazione di venire afferrato da qualcosa,
una vibrazione interna senza segni o movimenti esteriori. È incredibile
che io riesca ancora a scrivere. Ho la sensazione che io e la macchina
per scrivere abbiamo sconfitto la forza di gravità; l’aggeggio fluttua
davanti a me come un giocattolo fosforescente. Bizzarro, che riesca
ancora a digitare le parole…certo, per scrivere «bizzarro» c’è voluto un
secolo…”
Nino G. D’Attis |