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JAMES ELLROY: Il Sangue è randagio  (Mondadori, pp. 859, € 24,00; traduzione di Giuseppe Costigliola)
 

James Ellroy Il Sangue è randagio

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Si mormora, si sussurra, potrebbe essere vero, che Clint Eastwood abbia intenzione di dirigere un film incentrato sulla mefistofelica figura di J. Edgar Hoover, direttore dell'FBI dal 1924 al 1972, uomo che eliminò John Dillinger e George ‘Machine Gun’ Kelly, braccio del maccartismo, collezionista di gossip scabrosi di Hollywood, custode di molti misteri che passano per gli omicidi del presidente Kennedy e dell’attivista nero Martin Luther King. Leggendo questa notizia ho pensato con una certa tristezza a Francis Ford Coppola, grande cineasta oggi in pantofole che, dopo aver portato sul grande schermo i personaggi di Mario Puzo prestando particolare attenzione alle sottotrame della società e della politica a stelle e strisce, avrebbe potuto misurarsi con la trilogia di romanzi che James Ellroy ha dedicato alla storia sporca dell’America. Occasione mancata. Forse l’inossidabile Eastwood ha letto Ellroy, forse dovrebbe leggerlo prima di mettere in cantiere il suo biopic su Hoover. Perché, a differenza di quanto è accaduto al cinema negli ultimi dieci-quindici anni, la letteratura seria non ha smesso di indagare meticolosamente negli anfratti più bui della storia umana. Perché scrittori come Ellroy, Norman Mailer, Nick Tosches o David Peace hanno osato molto, portandoci nei luoghi più impensati del recente passato dopo aver intrecciato a dovere fiction e realtà.

   L’attesa per il capitolo conclusivo della saga cominciata con American Tabloid (1995) e Sei pezzi da mille (2001) è stata lunga, le aspettative altissime. Per nove anni, le voci intorno all’ultima fatica dello scrittore nato a Los Angeles nel 1948 si sono susseguite senza sosta, soprattutto sul web. Annunciato già per il 2008, poi posticipato, quindi preceduto da una lettera semiseria di Ellroy ai librai americani (“Cari librai, ecco in tutta la sua magnificenza il mio nuovo romanzo…”), Il Sangue è randagio ha visto finalmente la luce, in Italia con l’eccellente traduzione di Giuseppe Costigliola.

   859 pagine, un flusso continuo di odori, rumori, frasi sincopate ("In ogni caos c'è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto", per dirla con le parole di Jung). Il titolo mutuato da una lirica del poeta inglese Alfred Edward Housman. Difficile, quasi impossibile consigliarne la lettura ai neofiti: immagino che a nessuno verrebbe in mente di approcciarsi, poniamo, al ciclo di romanzi della Torre Nera di Stephen King partendo dal sesto o dal settimo volume. E non è semplicemente una questione di riferimenti ad episodi e personaggi presenti nei primi due tomi, in gioco c’è proprio la sintonia con il mood ellroyano, quello stile mutato nel 1992 con l’anfetaminico White Jazz e oggi diventato la cifra dominante di un autore che ha influenzato, influenzerà ancora altri narratori, ma soprattutto è stato ripetutamente imitato.

   “Is James Ellroy the best judge of his own novels?”, titolava nei mesi scorsi The Guardian. Suo è il ritmo che potreste ottenere mettendo insieme una band immaginaria composta da Don Cherry, John Zorn e Ornette Coleman. Sua è la capacità di cucire insieme un plot centrale e svariati subplot con personaggi minori. Sua è la lingua insolente dei guardoni, dei parricidi, dei tirapiedi prezzolati,  degli artisti del ricatto e dei reietti d’ogni sorta. Occorre dunque avere familiarità con l’universo ellroyano prima di tuffarsi dal trampolino verso le acque torbide in cui galleggiano Dwight Holly, Wayne Tedrow e Don Crutchfield, le tre figure centrali di una storia che, dopo un prologo iniziale che ci porta sulla scena di una sanguinosa rapina avvenuta a Los Angeles nel febbraio del 1964, sposta l’azione nell’estate del 1968, pochi mesi dopo l’assassinio di  Martin Luther King a Memphis.

  L’America è sempre meno vergine e innocente, sempre più infima quanto a spessore morale: Vietnam, la grande piaga del razzismo e il Black Power, un altro Kennedy (Robert, candidato del Partito Democratico) muore nelle cucine dell'Ambassador Hotel di Los Angeles in un attentato all'indomani della sua vittoria nelle elezioni primarie di California e South Dakota. Nella corsa alle presidenziali, la faina Richard Nixon ha la strada spianata e dovrà vedersela con il senatore Hubert Humphrey, un avversario decisamente più debole. Hoover si balocca con il COINTELPRO (Counter Intelligence Program), programma del Bureau che aveva come obiettivo l’annullamento (con metodi legali e illegali) della crescita dei movimenti radicali, in particolare di sinistra e afroamericani. L’impero mafioso punta alla Repubblica Dominicana  (“Castro aveva cacciato a calci in culo i Ragazzi da Cuba. Dovevano trovare un altro punto caldo in America latina, consolidarlo e riorganizzare gli affari”). Holly e Tedrow ereditano la cattedra di mentori appartenuta in precedenza a Ward Littell e Pete Bondurant. Crutchfield è invece il novizio giovane e promettente che si affaccia nel mondo dei duri, nel giro grosso movimentato dalle voglie, dai capricci di squali come Hoover, Sam Giancana, Howard Hughes (e non il regista Hawks, come riporta erroneamente il risvolto di copertina). Don il pivello, ammiratore del poliziotto Scotty Bennett (squadra antirapina di L.A.), iniziato ai dolcetti all’hashish e all’omicidio dal francese Jean-Philippe Mesplede: «Comunisti e traditori cubani. Fammi la cortesia, ammazzameli.»

   Crollo etico. Carne avariata. Pedinamenti. Microspie. Guerra agli hippies. Guerra alla controcultura. Guerra contro i militanti neri carichi di rabbia contro il sistema capitalista e razzista. Cospirazioni da fare e rifare. Rimorsi atroci che personaggi in bilico scacciano compiendo altre azioni ripugnanti. Il clima di violenza sempre in crescendo, anche nelle pagine in cui nessuno compie atti violenti. Tutto come da copione. Ma Il Sangue è randagio è anche il romanzo in cui Ellroy inserisce per la prima volta figure femminili che esulano dal ruolo di semplici oggetti del desiderio: da Janice Lukens Tedrow, la matrigna-amante di Wayne a Karen Sifakis e Joan Rosen Klein, aka la Dea Rossa, passando per la sindacalista nera Mary Beth Hazzard, vedova di un reverendo assassinato da Wayne. È, nelle parole dello scrittore, il romanzo che “parla della necessità di rivoluzione e cambiamento”. Poi, in ultimo, l’opera che permette di cogliere il significato della ‘Underworld USA Trilogy’ nel suo insieme come un lucido, feroce affresco del fascismo e del suo innegabile peso sulla società tra menzogne e insinuazioni, repressione e oppressione.

   Ellroy è l’Orson Welles del docu-noir, il Michelangelo della crime fiction, un artista che intinge i pennelli nella tavolozza della nostra storia recente lasciandoci ancora una volta attoniti e consapevoli: l’America di ieri ci parla (coi tratti distintivi di una maledizione) dell’America e del mondo in cui viviamo oggi.

 

Nino G. D'Attis