Si mormora, si sussurra,
potrebbe essere vero, che Clint Eastwood abbia intenzione di dirigere un
film incentrato sulla mefistofelica figura di J. Edgar Hoover, direttore
dell'FBI dal 1924 al 1972, uomo che eliminò John Dillinger e George
‘Machine Gun’ Kelly, braccio del maccartismo, collezionista di gossip
scabrosi di Hollywood, custode di molti misteri che passano per gli
omicidi del presidente Kennedy e dell’attivista nero
Martin Luther King.
Leggendo questa notizia ho pensato con una certa tristezza a Francis
Ford Coppola, grande cineasta oggi in pantofole che, dopo aver portato
sul grande schermo i personaggi di Mario Puzo prestando particolare
attenzione alle sottotrame della società e della politica a stelle e
strisce, avrebbe potuto misurarsi con la trilogia di romanzi che James
Ellroy ha dedicato alla storia sporca dell’America. Occasione mancata.
Forse l’inossidabile Eastwood ha letto Ellroy, forse dovrebbe leggerlo
prima di mettere in cantiere il suo biopic su Hoover. Perché, a
differenza di quanto è accaduto al cinema negli ultimi dieci-quindici
anni, la letteratura seria non ha smesso di indagare meticolosamente
negli anfratti più bui della storia umana. Perché scrittori come Ellroy,
Norman Mailer, Nick Tosches o
David Peace hanno osato molto, portandoci
nei luoghi più impensati del recente passato dopo aver intrecciato a
dovere fiction e realtà.
L’attesa per il
capitolo conclusivo della saga cominciata con American Tabloid
(1995) e Sei pezzi da mille (2001) è stata lunga, le aspettative
altissime. Per nove anni, le voci intorno all’ultima fatica dello
scrittore nato a Los Angeles nel 1948 si sono susseguite senza sosta,
soprattutto sul web. Annunciato già per il 2008, poi posticipato, quindi
preceduto da una lettera semiseria di Ellroy ai librai americani (“Cari
librai, ecco in tutta la sua magnificenza il mio nuovo romanzo…”), Il
Sangue è randagio ha visto finalmente la luce, in Italia con
l’eccellente traduzione di Giuseppe Costigliola.
859 pagine, un flusso
continuo di odori, rumori, frasi sincopate ("In ogni caos c'è un cosmo,
in ogni disordine un ordine segreto", per dirla con le parole di Jung).
Il titolo mutuato da una lirica del poeta inglese
Alfred Edward Housman.
Difficile, quasi impossibile consigliarne la lettura ai neofiti:
immagino che a nessuno verrebbe in mente di approcciarsi, poniamo, al
ciclo di romanzi della Torre Nera di Stephen King partendo dal
sesto o dal settimo volume. E non è semplicemente una questione di
riferimenti ad episodi e personaggi presenti nei primi due tomi, in
gioco c’è proprio la sintonia con il mood ellroyano, quello stile mutato
nel 1992 con l’anfetaminico White Jazz e oggi diventato la cifra
dominante di un autore che ha influenzato, influenzerà ancora altri
narratori, ma soprattutto è stato ripetutamente imitato.
“Is James
Ellroy the best judge of his own novels?”, titolava nei mesi scorsi The
Guardian.
Suo è il ritmo che potreste ottenere mettendo insieme una band
immaginaria composta da Don Cherry, John Zorn e
Ornette Coleman. Sua è
la capacità di cucire insieme un plot centrale e svariati subplot con
personaggi minori. Sua è la lingua insolente dei guardoni, dei
parricidi, dei tirapiedi prezzolati, degli artisti del ricatto e dei
reietti d’ogni sorta. Occorre dunque avere familiarità con l’universo
ellroyano prima di tuffarsi dal trampolino verso le acque torbide in cui
galleggiano Dwight Holly, Wayne Tedrow e Don Crutchfield, le tre figure
centrali di una storia che, dopo un prologo iniziale che ci porta sulla
scena di una sanguinosa rapina avvenuta a Los Angeles nel febbraio del
1964, sposta l’azione nell’estate del 1968, pochi mesi dopo l’assassinio
di Martin Luther King a Memphis.
L’America è sempre meno
vergine e innocente, sempre più infima quanto a spessore morale:
Vietnam, la grande piaga del razzismo e il Black Power, un altro Kennedy
(Robert, candidato del Partito Democratico) muore nelle cucine dell'Ambassador
Hotel di Los Angeles in un attentato all'indomani della sua vittoria
nelle elezioni primarie di California e South Dakota. Nella corsa alle
presidenziali, la faina Richard Nixon ha la strada spianata e dovrà
vedersela con il senatore Hubert Humphrey, un avversario decisamente più
debole. Hoover si balocca con il COINTELPRO (Counter Intelligence
Program), programma del Bureau che aveva come obiettivo l’annullamento
(con metodi legali e illegali) della crescita dei movimenti radicali, in
particolare di sinistra e afroamericani. L’impero mafioso punta alla
Repubblica Dominicana (“Castro aveva cacciato a calci in culo i Ragazzi
da Cuba. Dovevano trovare un altro punto caldo in America latina,
consolidarlo e riorganizzare gli affari”). Holly e Tedrow ereditano la
cattedra di mentori appartenuta in precedenza a Ward Littell e Pete
Bondurant. Crutchfield è invece il novizio giovane e promettente che si
affaccia nel mondo dei duri, nel giro grosso movimentato dalle voglie,
dai capricci di squali come Hoover, Sam Giancana, Howard Hughes (e non
il regista Hawks, come riporta erroneamente il risvolto di copertina).
Don il pivello, ammiratore del poliziotto Scotty Bennett (squadra
antirapina di L.A.), iniziato ai dolcetti all’hashish e all’omicidio dal
francese Jean-Philippe Mesplede: «Comunisti e traditori cubani. Fammi la
cortesia, ammazzameli.»
Crollo etico. Carne
avariata. Pedinamenti. Microspie. Guerra agli hippies. Guerra alla
controcultura. Guerra contro i militanti neri carichi di rabbia contro
il sistema capitalista e razzista. Cospirazioni da fare e rifare.
Rimorsi atroci che personaggi in bilico scacciano compiendo altre azioni
ripugnanti. Il clima di violenza sempre in crescendo, anche nelle pagine
in cui nessuno compie atti violenti. Tutto come da copione. Ma Il
Sangue è randagio è anche il romanzo in cui Ellroy inserisce per la
prima volta figure femminili che esulano dal ruolo di semplici oggetti
del desiderio: da Janice Lukens Tedrow, la matrigna-amante di Wayne a
Karen Sifakis e Joan Rosen Klein, aka la Dea Rossa, passando per la
sindacalista nera Mary Beth Hazzard, vedova di un reverendo assassinato
da Wayne. È, nelle parole dello scrittore, il romanzo che “parla della
necessità di rivoluzione e cambiamento”. Poi, in ultimo, l’opera che
permette di cogliere il significato della ‘Underworld USA Trilogy’ nel
suo insieme come un lucido, feroce affresco del fascismo e del suo
innegabile peso sulla società tra menzogne e insinuazioni, repressione e
oppressione.
Ellroy è l’Orson
Welles del docu-noir, il Michelangelo della crime fiction, un artista
che intinge i pennelli nella tavolozza della nostra storia recente
lasciandoci ancora una volta attoniti e consapevoli: l’America di ieri
ci parla (coi tratti distintivi di una maledizione) dell’America e del
mondo in cui viviamo oggi.
Nino G. D'Attis |