Cinque traduttrici, un
revisore ed un caporedattore possono essere una grande squadra
all’interno di un progetto editoriale. Tuttavia, nel caso della corposa
ed interessante biografia di Jonathan Miller dedicata ai Depeche Mode, è
richiesta una buona dose di pazienza (e anche un pizzico di umorismo)
per affrontare sviste e strafalcioni madornali che affiorano in diverse
pagine del testo. Succede, ad esempio, che Heroes, uno dei dischi
più famosi di David Bowie, diventi “Herpes”; che la ragione sociale
dell’etichetta discografica americana Reprise si trasformi in “Reprime”,
oppure che il cantante Rod Stewart diventi “Rod Steward”. I fans
perdoneranno. Se gli argomenti in questione sono la vita e le imprese di
uno dei gruppi più longevi del pianeta, una band che proprio per l’anno
2009 ha preparato una mastodontica offensiva con un nuovo album (Sounds
of the Universe, dodicesimo titolo in studio, al netto di live e
antologie) ed un faraonico tour mondiale in partenza il 10 maggio dal
Ramat Gan Stadium di Tel Aviv, alla fine vince la sostanza. Tanta, nel
mattone scritto da Miller, giornalista freelance britannico che ha
attinto in egual misura a testimonianze di prima mano e ad una mole non
indifferente di articoli, interviste, recensioni, senza peraltro
disdegnare le fonti del web (cosa che ai nostri occhi fa risaltare una
volta di più l’atteggiamento ottuso e anacronistico degli uffici stampa
italiani di colossi discografici refrattari al dialogo con le riviste
online).
Insieme a Black
Celebration di
Steve Malins, edito in Italia nel 2006 dalla
Chinaski, questo volume rappresenta un approccio serio ai Depeche Mode:
l’aneddoto non scivola mai nel pettegolezzo spicciolo, più importante è
la musica di quei ragazzini di Basildon, Essex che nel giro di tre album
riuscirono a svincolarsi dall’etichetta di boy-band per intraprendere un
percorso nuovo, adulto e affascinante.
Diversi dai Duran
Duran, dagli Spandau Ballet, da un numero imprecisato di meteore del
decennio ’80. Guidati da santi protettori come Daniel Miller (più che un
discografico, un fratello maggiore), il fotografo/videomaker olandese
Anton Corbijn; i produttori Gareth Jones, Flood, Tim Simenon, gli amici
ed ex soci Vince Clarke ed
Alan Wilder che in momenti differenti della
storia del gruppo hanno affrontato con genio e spirito di sacrificio il
lavoro in studio di registrazione. Baciati dalla fortuna (il talento da
solo non basta, è risaputo) grazie all’exploit in Germania di
Construction time again nel 1983 (Andy Fletcher: «Non abbiamo mai
pensato che la nostra musica avesse delle sfumature vagamente tedesche.
Se si ascolta la musica tedesca…Non vedo il collegamento.») ed il
proselitismo negli Stati Uniti agevolato dalle nascenti emittenti
radiofoniche dei campus universitari.
L’arco di tempo
analizzato da Miller corre dagli esordi con il singolo Dreaming of me
/ Ice machine (1982) - dopo i primi tentativi sotto la sigla
Composition Of Sound - alla prima, non proprio felicissima sortita in
veste di solista del frontman Dave Gahan con Paper Monsters
(2003). Chiude su un’istantanea dei Depeche Mode colti in un periodo di
crisi destinato a risolversi con nuova linfa, una volta esorcizzato lo
spettro dello scioglimento, solo nel 2005, anno della pubblicazione di
Playing the Angel. In mezzo ci sono le ambizioni, i tentativi di
mettere a fuoco uno stile personale e di emergere in patria e fuori, la
consacrazione nella sfera delle stelle capaci di appassionare più di una
generazione. C’è la storia dei brani più importanti della band, da
Somebody a Enjoy the Silence. C’è l’attenzione suscitata
presso musicisti di estrazione diversa: “A Detroit – casa della musica
techno – le persone più influenti della scena musicale iniziavano a
citare i supereroi di Basildon come i pionieri di quel genere musicale
(insieme ai Kraftwerk e, in misura minore, a The Human League e New
Order)”, si legge a pagina 294.
La perizia dell’autore
è notevole ogni volta che il discorso indugia sui dettagli tecnici del
lavoro in studio e live (strumentazione, processi di registrazione ed
esecuzione). Quanto basta, ça va sans dire, per far sprofondare
di vergogna schiere di devote isteriche pronte a buttarsi pateticamente
sotto le ruote delle berline che scarrozzano Gahan, Fletcher e Gore da
un concerto all’altro. La musica, non l’ancheggiare del cantante conta
alla fine: Dave Gahan lo sa, visto che la fama ha rischiato di
bruciarlo. Leggete questo libro: trascurando le carenze dell’edizione
italiana, vale comunque il prezzo di copertina.
Nino G. D’Attis
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