Credo nelle voci potenti che escono dalle pagine dei libri migliori.
Credo alla forza delle parole sparate come proiettili e alla vecchia ma
sempre attuale formula faulkneriana che permette di riconoscere un buon
romanziere: “Novantanove per cento talento. Novantanove per cento
disciplina. Novantanove per cento lavoro.”
Ferro e Fuoco, secondo romanzo di Omar
Di Monopoli dopo l’altrettanto eccellente Uomini e Cani (2007)
certifica l’esistenza di una voce autentica, ricca di grandi intuizioni
ed immagini; il richiamo di uno scrittore che sa cantare ambientazioni,
tensioni e destini tragici di un mondo sporco e spacciato. Di certo,
l’autore di Manduria con un passato di fumettista underground ha letto
William Faulkner e Cormac McCarthy e molto deve aver apprezzato questi
due giganti americani, assorbendone l’acutezza dello studio dei
caratteri, la coerenza strutturale, la particolarità di uno sguardo
attento all’orrore quotidiano. Altri sono i debiti più o meno
dichiarati: Jim Thompson, il cinema di Sergio Leone e quello di Sam
Peckinpah, più il Nick Cave delle Murder Ballads. Proprio come in
una tetra ballata d’omicidio, qui si parte dalla fuga verso nord di
Kazim, il turco accusato di aver massacrato di botte Mariehla, ragazza
rumena amante dello spietato boss che tutti chiamano il Pellicano. Kazim
è un disperato come Andrej, come i nigeriani e i polacchi rosi dalla
fame, dal caldo e dagli stenti della vita nei campi. Il Pellicano lo
vuole vivo o morto, gli mette alle calcagna quattro assassini prezzolati
vestiti di nero e attende fiducioso il loro ritorno.
“Se me lo
portate quaggiù vivo, mi fate un piacere. Ma se la faccenda dovesse
procurarvi troppi fastidi, io quel figlio di puttana lo accetto pure
crepato!”
Siamo nel Gargano, dalle parti dell’inesistente paese di Colle
Capurzio, nell’estate dei roghi di Peschici, San Felice e San Salvatore,
sulla litoranea tra Mattinata e Vieste. Terra di scenari suggestivi,
resa inospitale da uomini senza scrupoli, negrieri del XXI° secolo che
prosperano grazie alla connivenza di poliziotti corrotti e al regime di
terrore che sono riusciti ad instaurare tra gli immigrati clandestini al
loro servizio. Mariehla è il perno attorno al quale Di Monopoli fa
ruotare i sentimenti più tenebrosi degli abitanti di Colle Capurzio:
sorella, puttana, prigioniera, favorita, corpo martoriato, fantasma
evocato nel dolore, è un personaggio indimenticabile ancorché assente
dalla scena. Un enigma, nonostante le cose che vengono rivelate al
lettore sul suo conto nel corso del romanzo. E un mistero ancestrale
sembra essere anche quella natura selvaggia, testimone dello scorrere di
fuoco e sangue, delle bestemmie degli uomini, delle colpe dei padri
verso i figli.
Come in Uomini e Cani (vincitore del Premio Opera Prima
Edoardo Kihlgren 2008), l’attenzione dell’autore per la lingua è
altissima e produce un mix riuscito di italiano e parlate locali
all’interno del quale perfino le uscite più triviali raggiungono vette
di puro lirismo riportando alla memoria certe folgorazioni di Andrea
Pazienza:
“Il bassetto tarchiato si voltò con la faccia congestionata e schiumante
e puntando il dito nell’aria si mise a strillare indiavolato: ck’u
caaaaaaazze!”
La
comicità nelle maschere che si muovono e parlano nei romanzi di Di
Monopoli, se c’è è incidentale: prevalgono il nero, il grottesco, il
lato amorale e ineluttabilmente marcio della cartolina dal Sud.
Retroverso allucinato e aguzzo, epressione di anime annientate dal
rancore. Niente eroi. Nessun riscatto. Solo ignoranza, stupidità,
razzismo e violenza nel cuore rurale dell’Italia.
Nino G.
D’Attis
|