Di calcio non so
assolutamente niente. Zero. Buio completo. Mai avuto una squadra del
cuore. Mai seguito un mondiale. Ho giocato una sola volta a calcetto – a
memoria nel ’96 o nel ’97 – mi misero in porta, avevo una sigaretta in
bocca e una bottiglia di Dreher ancorata a un palo, e per tutta la
partita non riuscii a distinguere i compagni dagli avversari (in
compenso parai tre goal su quindicimila). Il biliardino, quello sì che
mi fa impazzire. Una cosa da bar, chiasso, chiacchere, risate, ventidue
pupazzetti dalle facce piatte, metà rossi e metà blu. Il biliardino (o
calciobalilla) ha una sua magia, un suo perché.
Preambolo doveroso per
dire che fin qui non avrei mai immaginato di poter leggere un libro
sull’argomento, giuro. Ma non avevo fatto i conti con David Peace,
evidentemente. Non è un mistero che l’autore del ‘Red Riding Quartet’,
GB84 e Tokyo Anno Zero sia tra i miei preferiti.
Ho accettato la sfida.
Penso che, fondamentalmente, qualsiasi lettore sia chiamato a rispondere
a sfide continue: qualcuno ti parla di Céline, e un giorno decidi di
tuffarti nel Viaggio al termine della notte. Ti dicono che
Frammenti di un discorso amoroso di Barthes non è esattamente Liala,
e ti fidi. E così via e così via…
Negli ultimi anni ho
divorato qualsiasi cosa sia stata tradotta in Italia di questo fenomeno
della letteratura inglese da tempo trapiantato in Giappone. Come avrei
potuto lasciarmi sfuggire la storia dei quarantaquattro fottutissimi
giorni di Brian Clough in veste di Mister del Leeds United?
Di calcio non so
niente, lo ripeto. Ma questa è la storia di un uomo e uno spaccato
dell’Inghilterra a metà degli anni ’70 (lo stesso periodo in cui erano
ambientate le storie della sanguinosa quadrilogia dello Yorkshire).
Brian Howard Clough (Middlesbrough, 21 marzo 1935 – Derby, 20 settembre
2004), figlio della classe operaia, calciatore e poi allenatore. Sua è
la definizione “Cheating, fucking Italian bastards”, riferita alla
Juventus dopo una sconfitta del suo amatissimo Derby County in una
semifinale di Coppa dei Campioni. Clough arriva al Leeds United in
sostituzione di Donald George Revie, che aveva avuto cura della squadra
dal 1961 al 1974 portandola dalla seconda alla prima divisione, poi
alla vittoria di due campionati, una FA Cup, una League Cup, una
SharityShield e due Coppe delle Fiere.
La squadra è
difficile, Clough lo sa. Il Club è un nido di ossi duri e boriosi,
stelle in cima alla classifica che però non rinunciano alla
scorrettezza. Ma anche Clough è un duro: beve, fuma, bestemmia, trascura
la famiglia, pensa notte e giorno al sogno di migliorare la squadra che
ha davanti: il Leeds (che odia, profondamente ricambiato) dovrà vincere
rinunciando al gioco sporco, all’imbroglio. Ha carisma, Clough. È
sanguigno e scostante ma, a dispetto di ciò, riesce ad osservare bene le
cose, le facce che ha intorno.
“Da queste parti odiano
l’eleganza. La odiano e la disprezzano, gli stronzi. La trascinano in
mezzo alla strada e la prendono a calci nello stomaco, la uccidono e
l’appendono ai piloni perché tutti la possano vedere e deridere,
dall’autostrada e dalla ferrovia, dalle fabbriche e dai campi, dalle
case e dalle colline. Elland Road, Leeds, Leeds, Leeds.”
Peace scrive una cronaca avvincente, ancora una volta sospesa tra
presente e passato (gli inizi del protagonista come allenatore, dopo il
grave infortunio che il giorno di Santo Stefano del 1962 mise fine alla
sua carriera agonistica; il sodalizio con Peter Taylor, ex compagno di
squadra al Middlesbrough). Un thriller, a suo modo. Lo stile è quello:
serrato, farcito di imprecazioni, totalmente immerso nella realtà. Ciò
che eleva Peace è la sua capacità di oltrepassare gli steccati dei
generi, confermandosi narratore assoluto, padrone della pagina in grado
di suscitare ammirazione e genuino entusiasmo nel lettore.
Se ne fotte, Peace,
delle etichette, dei manifesti a lutto per una tutta presunta morte del
romanzo, delle criptiche elucubrazioni sull’Io e il Me nell’epica,
morbosa sega col guanto della letteratura contemporanea.
Qualsiasi cosa decida
di scrivere, Peace offre il sudore, il sangue, gli sputi degli uomini:
solo questo conta.
Qui c’è un pezzo della
vita di un signore che i suoi connazionali definirono ‘soccer genius’.
Ci sono le sue ambizioni e le sue bestemmie. Ed è un grande,
indimenticabile romanzo.
Nino G. D’Attis |