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SILENT HILL |
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Silent Hill, cittadina americana in riva al lago Toluca: tipico postaccio camuffato da posticino tranquillo. C’è una nebbia che neanche in Brianza, e poi cadono grossi fiocchi di cenere e per le strade si sentono lamenti di violini e pianoforte che fanno pensare a una jam session tra John Cale e The Dresden Dolls prodotta da Scott Walker. Silent Hill è un luogo deprimente: c’è del marcio tra quei mattoni che grondano sangue, qualcosa che rimanda ad eventi inenarrabili accaduti molti anni fa. Silent Hill è quasi più triste di Salice Salentino. Non ho mai giocato al videogame per Playstation lanciato dalla Konami nel 1999, però la mia bella mi ha detto (quasi) tutto mentre andavamo al cinema. Tipo che la trama è una ficata e la soluzione del mistero è meno scontata di quel che potrebbe sembrare. Mi fido. Già al primo minuto di proiezione scatta il panico, con tutti gli spettatori in sala che si agitano sulle poltrone urlando a squarciagola: «Quadro, porca puttana: QUAAADROOOH!» Quando il proiezionista pone rimedio evitando peraltro un sicuro linciaggio, scopriamo che Sharon, figlia adottiva di una coppia benestante, soffre di sonnambulismo e durante i suoi preoccupanti stati di dormiveglia (ha la fissa dei precipizi) pronuncia il nome della città maledetta. Sua madre Rose decide di caricare in macchina la piccola e di portarla laggiù (e chissenefrega se papà non è d’accordo). Tutte matte, ‘ste mamme moderne: anch’io sono stato sonnambulo da bambino, però alla mia non è mai venuto in mente di farmi fare un viaggio fino al paese dei miei incubi (forse sapeva che più tardi ci avrei pensato da solo). Tra Sharon e Silent Hill sussiste un sinistro legame: sul suo blocco da disegno compaiono edifici, croci stravaganti, figure misteriose in un trionfo di tinte scure e violente. Neanche il tempo di arrivare nel centro abitato (si fa per dire: in sostanza è una città fantasma) che la piccola è svanita nel nulla gettando Rose nello sconforto. Scatta la dura lotta tra istinto materno e istinto di conservazione (fisica e mentale, tenuto conto delle dure prove che la stolta donna dovrà affrontare), ma è anche vero che se tuo marito ti ha bloccato la carta di credito, in un certo senso il peggio è passato. S P O I L E R Il consorte sembra un fessacchiotto ma alla fine si tiene la splendida casa! Al terzo lungometraggio (dopo Crying Freeman e Il patto dei lupi), il francese Christophe Gans, erede della gloria prematuramente sfiorita di Luc Besson, ha scelto di adattare per il grande schermo l’unico videogame in grado di competere con la popolarità leggendaria di Tomb Raider e Resident Evil. Un’avventura horror-psicologica che ha ispirato una serie di fumetti scritta da Scott Ciencin con i disegni di Ben Templesmith, Aadi Salman e Shaun Thomas pubblicati negli States dalla IDW Publishing e che vanta sul web numerosi forum di fans nei quali ogni giocatore, più che scambiare con altri appassionati i trucchi per procedere nel gioco, riflette sulla propria esperienza da un punto di vista introspettivo. Impresa non da poco, per questa co-produzione Giappone/USA/Francia: se Resident Evil ha una trama più lineare, tutta focalizzata sull’action, in Silent Hill contano soprattutto le atmosfere, il clima onirico da fiaba per adulti che omaggia scrittori come Lovecraft e Matheson, King e Dean Koontz, poi la serie Twin Peaks di David Lynch. Tutto striscia, si insinua nel subconscio, genera mostri che incutono un terrore più suggerito che visibile. L’attenzione maniacale per i dettagli e le ambientazioni, la precisione della costruzione delle inquadrature e del movimento della macchina da presa confermano il talento di Gans e fanno perdonare alcuni dialoghi al limite del demenziale (opera di un Roger Avary che vive ancora all’ombra del successo riscosso in team con l’ex amico Tarantino). Punti di forza: le incredibili scenografie; il demone armato di spadone; il pedofilo incaprettato; la sequenza coreografica con le infermiere non-morte; gli omaggi sparsi a Carpenter, Fulci e Argento (sì, bravi: se state pensando a Suspiria avete fatto bingo!). Non siamo in zona capolavoro ma il risultato fa il suo porco effetto: meglio delle patacche coreane che, puntuali come le zanzare, anche questa estate sono tornate ad infestare le nostre sale cinematografiche.
(N. G. D’A.) |
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