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LAVORARE CON LENTEZZA |
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"L'idea della felicità sganciata dal profitto è un'idea di grande attualità". Guido Chiesa
Ancora si dice in giro che il cinema italiano è tornato a mani vuote da Venezia 61. Proprio in questi giorni sui giornali si legge che Lavorare con lentezza ha avuto al festival un buon successo di critica e di pubblico ma (mannaggia!) è rimasto a digiuno di premi. Cominciamo dunque così: premio "Marcello Mastroianni" come migliori attori emergenti a Marco Luisi e Tommaso Ramenghi, protagonisti del film. Non che i premi quantifichino la qualità. È solo che uno si chiede perché tv e stampa ce la menano a ripetizione con alcune pellicole piuttosto che con altre... La domanda, ovvio, è ingenuamente retorica. Lavorare con lentezza, bellissimo titolo rubato ad una canzone di Enzo del Re (cantautore che chiedeva solo il minimo sindacale dello stipendio di un metalmeccanico e che suonava solo in luoghi raggiungibili coi mezzi pubblici) porta la firma di due personalità singolari nel panorama italiano: Guido Chiesa alla regia, Wu Ming alla sceneggiatura. Il primo si è fatto le ossa negli Stati Uniti con filmaker quali Jim Jarmusch e Amos Poe. Ha poi sperimentato il linguaggio del videoclip e del documentario, nel primo caso con gruppi come Assalti Frontali, Marlene Kuntz e Yo Yo Mundi, nel secondo con lavori di forte impegno politico e sociale: tra gli altri da ricordare Materiale Resistente sul cinquantenario della Resistenza (assieme a Davide Ferrario, regista di Tutti giù per terra e Dopo mezzanotte), Non mi basta mai (2000) assieme a Daniele Vicari sullo storico sciopero operaio alla Fiat datato 1980, e Una questione privata sulla vita di Beppe Fenoglio (1998). Per la sceneggiatura, invece, si parla non di uno, ma di ben cinque individui: Wu Ming, che in cinese mandarino sta per "anonimo", è infatti lo pseudonimo dietro cui si cela un collettivo, o meglio, una "band" di scrittori che scelgono, attraverso l'oscuramento delle singole individualità, di capovolgere la figura dell'autore come celebrità. Cinque teste che inchiostrano la pagina come fosse una jam session di musica jazz: no copyright alle idee, negazione del genio assoluto, la "Grande Ricombinazione" come vera unica creazione possibile. All'attivo svariati romanzi, il primo dei quali è Q del 1999 (firmato Luther Blissett). Lo spunto del film: l'avventura di Radio Alice, l'emittente bolognese del flusso creativo, della comunicazione trasversale, delle prime telefonate in diretta. Quella dentro la Bologna del '77, fatta dai figli degli operai, da chi credeva nella forza rivoluzionaria della libera espressione piuttosto che in quella della lotta armata. Ma la grande Storia rimane volutamente solo uno sfondo di colori, e l'emittente stessa un grande calderone narrativo che tiene insieme eventi e personaggi multipli, ben equilibrati nel dosaggio degli spazi, nei tratti che li delineano, nei profumi che suscitano nelle miscele narrative. Lavorare con Lentezza assomiglia, a volte, più ad un film "per" ventenni che ad un film "sui" ventenni. Nel bene e nel male. Con il suo stile, la sua bellezza, il suo non voler essere una storia su una radio, sugli anni settanta o sul mao-dadaismo. Nel bene: perché racconta di persone più che di fatti, di punti di vista, di pulsioni universali, di sogni arrabbiati, di incertezze e di vendetta. Per i toni pop, per la leggerezza che affascina, per l'ironia goliardica. Per l'improbabile "banda del buco" che scava la spina dorsale del film. Per la figura del truffatore filosofo e del "caramba" calabrese. Per Mastandrea in divisa e per la Pandolfi che poi tanto da fiction-tv non è. Nel male: perché certe discussioni nella cucina spoglia di mamma, sotto casa con l'amico nel giardinetto di periferia, contro il mondo e contro il capitalismo e contro se stessi, purtroppo, rimangono lì, appiccicate sullo schermo incapaci di smuoversi di un millimetro. In pochi al cinema sono riusciti a raccontare le insofferenze tardo adolescenziali evitando di essere poveramente tardo adolescenziali. Senza essere macchietta, scenetta o massima da diario. Il film a volte non ce la fa e inciampa. Però non tarda mai a rialzarsi, e si distingue nell'evitare la nostalgia mostrando l'energia e i limiti dei suoi personaggi, senza giudizi storici né messaggi di propaganda. Chiesa e i Wu Ming si sforzano di rinnovare i canoni della narrazione senza perdere di vista i gusti del pubblico: inizio ad effetto, finale ad effetto. In mezzo un montaggio da applauso di Luca Gasparini (presto sugli schermi anche con Nemmeno il destino del bravissimo Daniele Gaglianone) sulle immagini splendidamente fotografate da Gherardo Gossi (che col montatore ha già lavorato ne Il partigiano Johnny). Riconquistiamoci il tempo, l’ozio esistenziale, e soprattutto l’impegno. L’obbligo alla vita. La fedeltà alle idee. Alla possibilità di poter essere quello che si vuole, lontano dagli ascensori che regolano i flussi della lotta di classe, della quotidianità mediocre e della non-stima di se stessi. Questa era Radio Alice. Questo e altro. Lavorare con lentezza. Senza fretta. Perché l’idea della felicità sganciata dal profitto, oltre che essere un’idea di grande attualità, è soprattutto una grande idea.
Antonello Schioppa |
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